Ripensare la prognosi delle malattie del sangue

La mutuazione del gene che codifica la proteina TP53 non implica sempre la presenza di una forma patologica più aggressiva. E' la conclusione di uno studio pubblicato da Nature Medicine a cui ha collaborato l'Ateneo. La scoperta induce a rivedere come valutare il decorso e l'esito di tutte le neoplasie
Archivio fotografico 123rf.com - Riproduzione riservata
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Non sempre la mutuazione del gene che codifica la proteina TP53 è da considerarsi un indice di aggressività nelle malattie del sangue. E’ questo il risultato a cui è arrivato un gruppo di ricerca internazionale composto da 24 centri ematologici di tutto il mondo e del quale fa parte il Laboratorio Sindromi mielodisplastiche diretto da Valeria Santini  della Ematologia-Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica dell’Ateneo fiorentino per la prognosi di un particolare tipo di neoplasia ematologica, le sindromi mielodisplastiche (MDS). Lo studio è stato pubblicato di recente sulla rivista Nature Medicine (Implications of TP53 allelic state for genome stability, clinical presentation and outcomes in myelodysplastic syndromes – DOI 10.1038/s41591-020-1008-z).

“Il gene che codifica la proteina TP53 è quello più frequentemente soggetto a mutazioni in corso di neoplasie – spiega Valeria Santini – e viene considerato un marcatore prognostico negativo. Anche nelle sindromi mielodisplastiche, il gene di TP53 è mutato e la mutazione è associata a malattia più aggressiva”.

“La ricerca ha preso in esame 3324 pazienti con MDS e mutazioni di TP53 – ha aggiunto Santini – e ha dimostrato che la mutazione non implica sempre la presenza di malattia più aggressiva. Infatti soltanto i pazienti che presentavano due mutazioni o una mutazione e una perdita del materiale genetico (delezione) dell’altro allele, presentavano una malattia a prognosi peggiore, mentre in un terzo dei casi, in cui la copia del gene per TP53 era normale, non aveva invece una cattiva prognosi, né una risposta insufficiente alle terapie”.

“I risultati di questo studio – conclude la docente fiorentina – hanno una rilevanza tale da indurci a pensare di dover cambiare radicalmente la valutazione prognostica di TP53 non solo per le sindromi mielodisplastiche, ma con ogni probabilità in relazione a tutte le neoplasie”.

 


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