Fusione del ghiaccio, misurazione sperimentale del processo grazie al laser

Uno dei più diffusi passaggi di stato che interessano l'acqua è stato misurato in scale dimensionali e temporali finora inesplorate.
ghiaccio che si scioglie
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La fusione del ghiaccio al rallentatore. Uno dei più diffusi passaggi di stato che interessano l’acqua è stato misurato in scale dimensionali e temporali finora inesplorate.

E’ l’obiettivo raggiunto da uno studio pubblicato su PNAS (Proceedings of National Academy of Science) ad opera di ricercatori del Dipartimento di Chimica dell’Università di Firenze che, al Laboratorio Europeo di Spettroscopia Non lineare (LENS), per la prima volta hanno ottenuto sperimentalmente una misurazione del processo di fusione del ghiaccio in tempi che vanno dal nanosecondo (un miliardo di secondo), al di sotto del quale si possono effettuare solo simulazioni al computer o misure con laser ultraveloci, fino alla decina di millisecondi (millesimi di secondo) laddove si possono usare tecniche fotografiche. La crescita delle particelle di liquido è stata seguita istante per istante nel regime mesoscopico: da dimensioni di poche decine di nanometri fino ai micron (milionesimi di metro). Al lavoro (“Melting dynamics of ice in the mesoscopic regime”, PNAS,  doi: 10.1073/pnas.1620039114) hanno collaborato – per il CNR – l’Istituto di Chimica dei Composti  Organo Metallici e l’Istituto Nazionale di Ottica, oltre all’Università di Perugia.

Il risultato della sperimentazione riveste una grande  importanza per poter validare e ottimizzare i moltissimi modelli teorici-computazionali sviluppati dalla scienza per spiegare le proprietà strutturali e dinamiche della molecola più abbondante nella crosta terrestre, l’acqua, il cui ruolo è fondamentale in numerosissimi processi biologici, chimici, fisici e geologici.

figura

“Il processo della fusione del ghiaccio, che porta progressivamente al formarsi di nanoscopiche gocce di liquido all’interno del cristallo di ghiaccio che poi si ingrossano e, una volta a contatto, si fondono (coalescenza) – spiega Roberto Bini, docente di Chimica fisica all’Ateneo fiorentino – varia per effetto di condizioni esterne come la pressione e la temperatura. Nello studio abbiamo usato un fascio laser per fondere il ghiaccio dentro una cella ad incudine di zaffiro (che permette di esercitare le pressioni necessarie), realizzando un riscaldamento omogeneo che porta alla formazione delle particelle di liquido  in tutto il cristallo e non solo sulle superfici come avviene nella maggior parte degli studi condotti sinora.”

“Usando un altro fascio laser – continua Bini – abbiamo misurato la diffusione di luce dal campione di ghiaccio che ci ha permesso  di monitorare la formazione e la crescita delle particelle di liquido fino alla successiva ricristallizzazione quando il sistema cede calore e, per così dire, torna indietro”.

Allo studio hanno dato un importante contributo tre giovani ricercatori, Margherita Citroni e Samuele Fanetti, attivi nel dipartimento fiorentino di Chimica, e Naomi Falsini, studente di dottorato al Lens, oltre a Paolo Foggi dell’Università di Perugia. La ricerca è stata possibile grazie alla partecipazione della Fondazione Cassa di Risparmio a questa iniziativa  con il progetto “Chimica Ultraveloce ad Altissima Pressione. Firenze al centro della ricerca sul ciclo del carbonio” e grazie ai fondi MIUR Futuro in Ricerca 2010 di cui è titolare Margherita Citroni.

Lo studio della fusione dell’acqua costituisce un importante contributo scientifico del gruppo di ricerca di  Bini al Deep Carbon Observatory, una iniziativa internazionale decennale finanziata dalla Sloan Fundation e diretta ad una maggiore conoscenza del carbonio all’interno della Terra. “La nostra ricerca – spiega ancora Bini – fa parte di un grande progetto che integra le competenze di chimici, biologi, fisici e geologi operanti in moltissimi laboratori in tutto il mondo. Studiare la fusione del ghiaccio aiuta ad indagare meglio una grande problematica ambientale: la presenza degli idrati di metano nel fondo degli oceani (il cosiddetto ghiaccio che brucia), molecole di metano intrappolate in ghiacci formatisi negli abissi per le particolari condizioni di temperatura e pressione. Se si pensa al riscaldamento globale e alla possibilità di scioglimento di tali formazioni non sfugge la rilevanza di questa vera e propria emergenza ecologica”.

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