Dieci miliardi di anni fa una galassia è morta. A “mangiarla” è stata la Via Lattea, che passaggio dopo passaggio ha attratto a sé le stelle della più piccola Gaia Enceladus, orbitante attorno a lei come satellite. In realtà, la galassia fagocitata, benché definita nana, presentava dimensioni considerevoli, tanto che la fusione ha provocato potenti destabilizzazioni all’interno della Via Lattea. Lo stesso nome, Gaia Enceladus, sottolinea l’impatto che ha avuto sulla nostra galassia: se “Gaia” riprende il nome del satellite ESA che ne ha permesso la scoperta e l’analisi dei dati, “Enceladus” rappresenta un gigante della mitologia greca, imprigionato sotto la Sicilia e responsabile dei terremoti e delle eruzioni dell’Etna.
Non nella mitologia ma nell’archeologia, in questo caso galattica, si inserisce lo studio coordinato dall’Ateneo fiorentino e pubblicato su The Astrophysical Journal Letters. L’articolo, intitolato “Evidence of Gaia Enceladus experiencing at least two passages around the Milky Way”, dimostra per la prima volta che questo evento di fusione non è avvenuto in un unico episodio: Gaia-Enceladus ha attraversato più volte il disco della nostra galassia prima di dissolversi completamente (DOI: 10.3847/2041-8213/addc66).

“Siamo riusciti a identificare stelle provenienti da Gaia-Enceladus depositate nella Via Lattea durante il suo primo passaggio e gli attraversamenti successivi” spiega Ása Skúladóttir, prima firmataria dell’articolo e docente di Astrofisica, cosmologia e scienza dello spazio presso il Dipartimento Fisica e Astronomia. “Si tratta di una scoperta importante per ricostruire l’evoluzione della nostra galassia. Infatti – prosegue – non tutte le stelle che oggi vediamo nella Via Lattea si sono formate al suo interno: alcune sono nate appunto in galassie che la Via Lattea ha inglobato nel tempo e che successivamente si sono dissolte al suo interno”.
Questa è stata la sorte di Gaia-Enceladus, lentamente prosciugata del suo patrimonio stellare. Le sue stelle oggi sono sparse in tutta la Via Lattea, ma possono essere identificate grazie alle loro impronte chimiche e cinematiche uniche rispetto a quelle delle loro “vicine” nate in situ.
“Abbiamo analizzato lo spettro elettromagnetico di alcune stelle provenienti da Gaia-Enceladus – aggiunge Skúladóttir – osservandone la composizione chimica, in particolare la presenza di alluminio, magnesio, bario e ferro, elementi attraverso cui possiamo definire la galassia e la zona di nascita della stella. Un’alta abbondanza di alluminio e magnesio indica che la stella si è formata in un’area vicina al centro della galassia. Un altro parametro che analizziamo è l’energia delle stelle, sia potenziale che cinetica. In questo caso vale il principio opposto: un più alto valore energetico è correlato a una stella più esterna del disco galattico”.

Incrociando questi due dati, era stato riscontrato che le stelle della Via Lattea differivano da quelle appartenenti a Gaia-Enceladus per una maggiore ricchezza di elementi e un minore movimento. La particolarità dello studio condotto da Unifi però è un’altra. “Anche tra le stelle di Gaia-Enceladus si registrano differenze chimiche e cinematiche” afferma Alice Mori, dottoranda in Fisica e Astronomia (Università di Firenze – INAF Osservatorio Astrofisico di Arcetri). “Questo significa che siamo di fronte a stelle che orbitavano in zone differenti e che quindi sono state inglobate dalla Via Lattea in incontri diversi. La composizione di queste stelle mostra come le prime a essere acquisite provenissero dalle regioni esterne di Gaia-Enceladus, meno evolute chimicamente, mentre quelle delle regioni più interne e più ricche di elementi chimici siano state catturate in passaggi successivi, quando a venire intaccate furono aree più centrali di Gaia-Enceladus”.
“I risultati della nostra ricerca – concludono le scienziate Unifi – sono un decisivo passo in avanti per conoscere la storia della nostra galassia. Prima, infatti, sapevamo solo distinguere le stelle nate nella Via Lattea da quelle formatesi in altre galassie, senza però conoscere i dettagli precisi di questo processo. Inoltre – concludono – poter utilizzare le proprietà chimiche e cinematiche delle stelle ‘rubate’ da una galassia a un’altra ci permette di ricostruire in modo accurato i processi di crescita galattica che osserviamo ovunque nel cosmo, perché i processi di fusione tra galassie sono molto comuni nell’universo”.