L’industria 4.0 crea o distrugge lavoro?

La nuova rivoluzione tecnologica distruggerà inesorabilmente lavoro e dovremo abituarci a una società sempre più povera di occasioni occupazionali? Alcune riflessioni su questa domanda che torna costantemente sui media e nel dibattito pubblico, politico e scientifico.
Diritto d'autore: jegas / 123RF Archivio Fotografico
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In queste brevi considerazioni vorrei riportare il dibattito su un terreno di riflessione che rifugge dalle previsioni apocalittiche di alcuni, così come da quelle ingenuamente ottimistiche di altri che sostengono che “ogni cambiamento tecnologico crea nuove occupazioni in grado di rimpiazzare il lavoro distrutto, anzi tali da portare il lavoro ad avere sempre più qualità”.

Vorrei sottolineare, infatti, quanto – sulla scorta degli insegnamenti del passato – il futuro sia in larga parte nelle nostre mani, dipenda dalle scelte che sapremo mettere in campo, sia nell’ambito delle politiche pubbliche sia in quello delle strategie private delle imprese e dei soggetti, individuali e collettivi, che si muovono sul mercato del lavoro e nel sistema delle occupazioni.

Questione antica

All’affacciarsi di cambiamenti tecnologici questo dibattito si è sempre verificato e ha visto sempre contrapporsi visioni apocalittiche e ottimistiche. Fin dagli albori della rivoluzione industriale, poi, è divenuto un tema costante. Basti pensare che alla fine del Settecento Adam Smith, nella Ricchezza delle nazioni (1776), ascrivendosi tra gli ottimisti, riteneva che i nuovi sistemi produttivi avrebbero creato tanto lavoro quanto ne avrebbero risparmiato. Pochi decenni dopo però, all’inizio dell’Ottocento, molti la pensavano diversamente. Nascevano movimenti operai contro le innovazioni tecnologiche: forse il più noto è il movimento luddista, dal nome di Ludd, un operaio tessile che rifiutava l’introduzione di apparecchi moderni nell’industria (lo spinnig-jenny o da noi giannetta, una macchina filatrice a lavoro intermittente e dotata di fusi multipli, inventata attorno al 1765 a Stanhill in Inghilterra da James Hargreaves). Si sviluppava anche una discussione tra gli economisti che sosteneva con argomenti scientifici le tesi degli operai contestatori: nei suoi Principi di economia politica e della tassazione (1817) David Ricardo prevedeva la disoccupazione da meccanizzazione, per effetto delle scelte dei capitalisti.

Nel Novecento, di fronte alla Grande depressione del 1929 il tema è divenuto ancor più centrale. Il sommarsi della crisi economica e dell’introduzione sempre più spinta di tecnologie che risparmiavano mano d’opera preoccupava politici e studiosi. Tra questi ultimi, John Maynard Keynes che temeva che la velocità dell’innovazione e del cambiamento del modello produttivo fosse ben più accelerata di quella del sistema economico di creare nuova occupazione e riconvertire i lavoratori in modo che potessero occupare nuove posizioni (Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”, 1936) e arrivava a proporre un ruolo dello Stato nella creazione di occupazione e ad anticipare ricette che solo alla fine del secolo sarebbero divenute centrali, come la riduzione dell’orario di lavoro.

Ho accennato brevemente alle tesi di Smith, Ricardo e Keynes solo per far vedere come la questione sia antica. Molti altri si potrebbero citare. Vorrei solo segnalare che in questo dibattito, sia gli ottimisti che i pessimisti convergevano su un punto: gli effetti positivi o negativi del cambiamento tecnologico non dipendevano, a loro avviso, soltanto e meccanicamente, deterministicamente, dalle innovazioni ma anche, e soprattutto, dai comportamenti e dalle strategie che gli attori sociali avrebbero messo in campo. Per Smith, era nelle mani degli imprenditori far sì che l’aumento della produttività e della produzione industriale producesse un saldo occupazionale positivo. Per Ricardo, i vari attori presenti sul mercato potevano far sì che l’aumento della produttività si traducesse in aumento anche di occupazione. Per Keynes, la politica poteva giocare un ruolo essenziale nella fase di passaggio tra un’epoca e l’altra, aiutando a mantenere i livelli occupazionali costanti.

Nulla è dunque ineluttabile. Tutto dipende da come si affrontano le sfide del tempo.

 

Oggi: Industria 4.0, robotica e lavoro

Anche oggi, di fronte a questa nuova fase dell’innovazione tecnologica, possiamo trovare tesi contrapposte, che prefigurano scenari pessimistici e ottimistici. Ciascuna teoria si basa su stime degli effetti occupazionali, tutte costruite con metodologie sofisticate e basate su solidi apparati teorici. Ma a chi dobbiamo credere?

Due noti economisti statunitensi, Carl Benedikt Frey e Michael Osborne, prevedono che i processi di automazione e digitalizzazione elimineranno nel 2030 quasi la metà degli occupati negli Stati Uniti (The Future of Work. How Jobs are Susceptible to Computerization, 2013). Il World Economic Forum prevede che già nel vicinissimo 2020 saranno perduti più di sette milioni di posti di lavoro, a fronte di due milioni creati, con un tragico saldo negativo.

Per contro, un economista del MIT di Cambridge, Massachusetts, David Autor, ha più volte scritto negli ultimi anni che l’innovazione distrugge posti di lavoro ma ne crea al contempo altri, in altri settori, e così è sempre stato (Why Are Still So Many Jobs? The history and Future of Workplace Automation, 2015). Nella grande distribuzione le casse automatiche levano lavoro ai cassieri e le ordinazioni online ai commessi ma creano nuovi lavori: di più elevata qualità, per i tecnici che disegnano e manutengono i nuovi macchinari e i siti web; e di più bassa qualità, nella distribuzione appaiono i cosidetti riders di cui in questi giorni si parla molto.

Peraltro, con le industrie 4.0 si può ottenere alta qualità della produzione risparmiando costi e dunque le strategie della via bassa sin qui perseguite, basate sulla riduzione del costo del lavoro delocalizzando nei paesi in via di sviluppo, diventerebbero meno necessarie e le imprese potrebbero riportare in Occidente molte lavorazioni, facendo aumentare l’occupazione. Ampiamente citato è il caso del ritorno in Germania di larga parte della produzione di Adidas, che ha automatizzato la cucitura delle scarpe da ginnastica.

Tra queste due rappresentazioni, pessimistiche e ottimistiche, sta probabilmente la realtà: questo processo distrugge e distruggerà lavoro, mentre crea e creerà altro lavoro. Ma quale sarà il saldo generale? Oggi è forse impossibile prevederlo. Inoltre, come si diceva, molto dipenderà dalle strategie delle imprese, degli attori sociali, e della politica.

 

Lavoro per chi? E chi sarà disoccupato?

Ma i numeri non bastano. Che il saldo occupazionale sia positivo o negativo, o anche nullo, non ci dice nulla sulle persone che perderanno lavoro e su quelle che lo potranno trovare; non ci dice nulla sulla possibilità di coloro che perderanno il lavoro di riconvertirsi e trovare una nuova occupazione.

Mentre si verificano grandi cambiamenti sociali ci sono sempre gruppi di persone che si trovano in difficoltà e altri gruppi di persone che se ne avvantaggiano. E questi due gruppi non coincidono, solitamente, e/o non sono negli stessi luoghi.

Non coincidono. Operai poco qualificati, impiegati poco qualificati, operatori dei servizi poco qualificati – soprattutto se non giovani – potranno andare a occupare le nuove posizioni lavorative che si genereranno? C’è il problema di chi è già al lavoro e lo perderà, con tutta la difficoltà di potersi riconvertire ai nuovi ruoli. E per di più nel campo della formazione in età adulta non eccelliamo: l’Italia è agli ultimi posti per livello di spesa in questo settore tra i Paesi sviluppati. Tuttavia, c’è anche il problema di chi si prepara alle nuove occupazioni del futuro – forse già ben presente. In un recentissimo rapporto dell’OCSE (Education at a Glance 2017) su cento italiani solo diciotto  sono laureati. Nei paesi industrializzati sono invece poco più del doppio (37% nella media OCSE). Solo il Messico ne ha meno di noi. Di più, solo un quarto esce da dipartimenti scientifici. Questi dati preoccupano molto, perché mostrano come non ci stiamo attrezzando per giocare un ruolo da protagonisti in questo processo e non stiamo preparando soggetti capaci di inserirsi nei nuovi posti di lavoro che si creeranno.

Non sono negli stessi luoghi. Se queste nuove tecnologie richiedono molto lavoro di ricerca e sviluppo, di produzione di macchinari e sistemi informativi molto sofisticati, il lavoro che si genererà sarà negli stessi luoghi in cui si perderà lavoro poco qualificato? Su questo l’Italia ha molto da riflettere. Il telefono fu inventato da Antonio Meucci o da Alexander Bell, che lo brevettò? La lampadina fu inventata da Alessandro Cruto o da Thomas Edison, che la brevettò?  Il personal computer nasce da un’intuizione sviluppata in Olivetti ma sono poi IBM, Hewlett Packard e Apple a svilupparla. La nostra storia è costellata di inventori che, per ristrettezze economiche o mancanza di strutture di sostegno e non solo per mancanza di ingegno, hanno perduto il loro primato. È costellata di invenzioni che hanno visto la loro piena realizzazione e il loro ulteriore sviluppo in altri paesi.

 

Conclusioni

Per concludere, non possiamo sapere se la nuova rivoluzione tecnologica creerà più lavoro di quanto ne distruggerà, o viceversa. Non lo possiamo sapere non perché siamo incapaci di stime realistiche ma perché ogni stima si basa su alcuni presupposti che riguardano e prefigurano alcune delle possibili strategie degli attori sociali (imprese, soggetti individuali e collettivi, politica). È da queste che dipenderà il futuro.

Non possiamo sapere se in Italia, se in Europa, se in Occidente, il saldo occupazionale sarà positivo o negativo. Lo stesso rapporto dell’OCSE citato (Education at a Glance 2017) ci segnala che i laureati nel mondo saranno sempre più, nell’ordine, cinesi e indiani – già oggi ai primi posti, ma insieme a Stati Uniti, Russia e, un po’ più distante, Giappone, tutti e tre paesi in cui in futuro i laureati sul totale saranno di meno.

Qualcosa però lo possiamo sapere.

Sappiamo che per restare protagonisti in questo processo bisogna investire in formazione iniziale per recuperare il terreno perduto e in formazione continua per aiutare il processo di riconversione professionale di molti e l’aggiornamento costante di tutti.

Sappiamo che bisogna sostenere in modo serio, e sostanzioso, il merito per far acquisire a chi ne ha le capacità un ruolo leader nell’innovazione. Sappiamo che bisogna investire in ricerca e sviluppo: investire con politiche pubbliche e fondi pubblici (italiani ed europei, ma usati bene) e agevolare l’investimento privato (delle imprese e degli istituti di ricerca). Sappiamo infine, che non bisogna abbandonare a se stessi coloro che pagheranno di più con la perdita del lavoro e del reddito da lavoro, sia, e soprattutto, perché stride con i nostri principi democratici sia anche per ragioni strumentali (per mantenere alti i consumi e ridurre le spese sanitarie e assistenziali).

Sappiamo, dunque, quel che c’è da fare. Sta a noi attrezzarci per farlo: individualmente e collettivamente.

 

[Il testo riprende l’intervento fatto dall’autrice in occasione dell’apertura di ScienzEstate 2018]

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