La scienza tra comunicazione e partecipazione

La divulgazione scientifica in Italia ha una storia tormentata. Solo ultimamente divulgazione e coinvolgimento dei cittadini sono diventati elemento importante dell’attività delle università e dei centri di ricerca.
Caffè scienza - Disegno di Franco Bagnoli
Caffè scienza - Disegno di Franco Bagnoli

I veri ricercatori fanno ricerca, al più possono insegnare, ma fare attività conto terzi, e addirittura fare divulgazione sono attività di bassa lega, le fanno solo quelli che non sono abbastanza bravi per produrre qualcosa di originale”. Sono abbastanza convinto che il pensiero di molti miei colleghi di fisica, matematica, chimica e altre discipline scientifiche sia più o meno questo. Hanno in mente una gerarchia che pone la ricerca “pura” al primo posto, seguita dall’insegnamento, seguita poi dalla ricerca applicata e, a distanza, dal trasferimento tecnologico, brevetti e fondazione di spin off. Segue poi, ben distaccata, la divulgazione, attività riservata a chi sta per andare in pensione.

Ovviamente la gerarchia cambia un po’ se si passa a discipline più tecniche come ingegneria o medicina, ma comunque il contatto con la società civile viene sempre per ultimo.

Viceversa, dal punto di vista dei nostri amministratori politici (che effettivamente sono spesso lontani dal mondo della ricerca), la gerarchia è senz’altro diversa. La ricerca pura è sentita come una cosa che assorbe molte risorse e produce poco, anche perché i risultati sono condivisi con tutto il mondo. La ricerca applicata invece va bene, così come il trasferimento tecnologico. L’insegnamento viene valutato in maniera oscillante, a seconda della disciplina, ma comunque è ritenuto importante.

La divulgazione in Italia ha una storia molto tormentata. Dopo la fase entusiasta e razionalista nell’800, durante il fascismo veniva considerata una branca della propaganda, e poi, forse per reazione, è stata trascurata, con notevoli eccezioni. Solo ultimamente si è cominciato a considerare la divulgazione e l’engagement (il coinvolgimento dei cittadini) come elemento importante dell’attività delle università e dei centri di ricerca.

Si tratta della cosiddetta “terza missione”, dopo l’insegnamento, la formazione e la ricerca. La VQR 2004-2010 comprendeva in tale attività solo quella di trasferimento tecnologico (brevetti, conto terzi, spin-off) mentre la VQR 2011-2014 inserisce la voce “attività di produzione di beni pubblici sociali e culturali (public engagement, patrimonio culturale, formazione continua, sperimentazione clinica)”.

Però, viene sottolineato, mentre le prime due missioni sono obbligatorie per i ricercatori e professori, la terza è a carico dell’ente nel suo complesso, cosa che certamente può demotivare molti ricercatori che diranno “perché devo perdere tempo con la divulgazione e l’engagement se non sono obbligato”? E in effetti, il grosso problema di svolgere tale attività, almeno dal mio punto di vista, è che i “prodotti” spesso non sono inquadrabili nello schema classico dell’articolo scientifico o del libro.

Cominciamo con le attività di divulgazione classica, ovvero le conferenze per il grande pubblico e gli articoli divulgativi.  Si tratta di un’attività che diventa fenomeno di massa nell’800 (il secolo delle grandi scoperte). Le letture di Humphry Davy e poi quelle di Faraday richiamavano persone di tutti i generi, che addirittura pagavano per assistere (figura 1).

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Figura 1. Thomas Rowlandson, Chemical lecture, 19th century [after 1809] via Wikimedia Commons
Questa tradizione è poi stata seguita da tantissimi altri scienziati, e a tutt’oggi per esempio l’Università di Firenze organizza gli Incontri con la Città  e tantissimi altri eventi con gli appassionati di scienza e gli studenti (tra cui anche ScienzEstate).

Ho collaborato varie volte con tali attività, oltre a scrivere articoli e libri divulgativi per varie riviste, fare lezioni-spettacolo nelle scuole, spettacoli di fisica in piazza o nei teatri, tenere un blog, produrre trasmissioni radio. Tutte cose che, salvo qualche articolo su riviste “vere” (comunque non indicizzate per la valutazione) non sono riportabili a livello individuale (anche se il mio dipartimento è ben felice di inserirle nella sua attività di terza missione).

Nella divulgazione “classica”, da una parte c’è l’esperto che comunica, o meglio “disvela”, la verità a un pubblico che riceve in maniera passiva. Gli inglesi lo chiamano il modello del “vaso vuoto da riempire”, ed è alla base delle attività legate al Public Understanding of Science o PUS.  Ma questa metafora è un po’ fuorviante. Da una parte, non si può “riempire” un pubblico se non si ha la coscienza del suo background e non si parla lo stesso linguaggio. È un po’ come se uno assistesse a una conferenza in una lingua sconosciuta: la comunicazione, per quanto importante sia il messaggio, sarebbe completamente vana. Inoltre, non si può forzare il pubblico ad essere “riempito”, neanche su temi ritenuti fondamentali.

Questo è particolarmente vero per i temi controversi, come per esempio la pericolosità dei vaccini o le politiche agroalimentari. Dato che il pubblico sceglie quale messaggio ricevere (spesso per simpatia o grado di esposizione pubblica dell’oratore, o attraverso il passaparola) non si può prescindere dalla struttura della rete sociale e dal ruolo pubblico dell’oratore o dell’ente proponente. Purtroppo ben poca importanza viene data a questo aspetto.

Infine, non si tiene in considerazione il possibile contributo attivo del pubblico, se non per poche e veloci domande finali. Modalità comunicative simili, essenzialmente mono-dimensionali, sono gli articoli divulgativi, le trasmissioni radio e televisive, i video di Youtube, i siti web e i vari blog (anche se sempre più spesso sono previsti strumenti di discussione).

Non a caso nel 2002 un nutrito gruppo di scienziati britannici scrisse una lettera a Science dicendo che il modello PUS era fallito, nonostante il grande sforzo, anche finanziario, profuso, e che si sarebbe dovuto passare a un modello più partecipativo (PEST, Public Engagement in Science and Technology).

Il modello classico può essere migliorato in varie maniere, fermo restando che esistono temi su cui tutti, io compreso, sono desiderosi di ricevere informazioni “a senso unico”, come per esempio conferenze di astronomia o di fisica delle alte energie, per restare su temi che conosco.

Una modalità più innovativa di comunicazione/partecipazione è quella dei caffè-scienza, in cui il dibattito è guidato, in gran parte, dalle domande del pubblico . In effetti, i caffè-scienza sono nati proprio come reazione alla comunicazione monodirezionale tipica della televisione (cfr. Duncan Dallas, The Café Scientifique, Nature 399, 120 – 13 May 1999). I caffè-scienza sono in qualche senso analoghi alla partecipazione a forum e mailing list tematiche, ma invece di essere delle interazioni “differite” avvengono dal vivo o in streaming su Internet.

Anche qui a Firenze ci siamo lanciati in questa nuova modalità comunicativa, e nel 2004, da un’idea di Paolo Politi che si era imbattuto in un caffè-scienza a Grenoble, abbiamo fondato l’Associazione Caffè-Scienza di cui sono attualmente il presidente. Ovviamente ci sono mille variazioni che possono essere sperimentate (si veda per esempio la rete italiana dei caffè scientifici).

L’importanza della partecipazione e delle domande nella comunicazione è espressa dalla considerazione seguente: molto spesso nella comunicazione scientifica non si vuole “passare” solo delle informazioni, ma il metodo di ragionamento seguito per arrivare a una certa conclusione – questo è anche l’obiettivo di gran parte della didattica. Ma comunicare il metodo è difficile, perché non conosciamo bene come funziona il nostro sistema di ragionamento, tanto meno sappiamo come indurre un certo processo nella mente dell’ascoltatore. Quindi ci limitiamo spesso a comunicare degli esempi, sperando poi che l’interlocutore sia in grado di generalizzare, disimparando il metodo preesistente, magari basato su pregiudizi, su frasi fatte, ecc. Il problema è che spesso l’insegnante o il comunicatore è talmente addentro alla materia e da così tanto tempo che non si ricorda più cosa bisogna disimparare. Chi è la persona più adatta a insegnare il metodo quindi? Non l’esperto, ma il compagno di studi, ovvero colui che ha ancora fresco il ricordo del “vecchio” e del “nuovo”. Certo, bisognerebbe avere il tempo di discutere e di confrontare le varie opinioni in maniera da far emergere quelle più organiche che di solito sono anche quelle più scientifiche, ma comunque le domande sono meglio di niente.

C’è bisogno di tempo per assimilare la comunicazione. Assistere ad una conferenza senza interruzioni è come guardare la TV: si entra in modalità “ricettiva” e si rimanda l’elaborazione a dopo la fine dell’evento, quando magari ne discutiamo con gli amici, ma è ormai tardi per poter interagire con gli esperti.

Si può andare oltre: aprire non solo la comunicazione ma anche la ricerca al contributo del pubblico. È quello che viene fatto per esempio nei Science Shops, un’esperienza che vogliamo replicare/adattare anche a Firenze nei prossimi mesi. In questa modalità, sono i cittadini che direttamente propongono temi di indagine o di approfondimento, che vengono poi effettivamente svolti dagli studenti universitari sotto la guida di un professore o di un ricercatore.

Infine, ma qui si entra nel campo della ricerca più che in quello della comunicazione, è anche possibile prevedere il contributo diretto dei cittadini nello svolgimento delle indagini, secondo il concetto della citizen science che può essere combinato con il tema dei Science Shops, per esempio coinvolgendo famiglie e studenti delle scuole medie e superiori in ricerche sociali o informative.

 

[L’articolo riprende i temi svolti dall’autore nell’intervento di apertura della 14° edizione di ScienzEstate]

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