L’emigrazione degli ebrei dall’Italia fascista e dalle leggi razziali

Un progetto di ricerca che l’Università di Firenze ha presentato nell'ambito del bando Memoria 2018, indetto dalla Regione Toscana, in occasione dell’ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali, intende mettere in luce aspetti poco noti della "fuga di cervelli" che si è prodotta con l'allontanamento di studenti e studiosi ebrei da scuole e università.
Il transatlantico "Conte di Savoia", in servizio tra l'Italia e New York fino al 1940 (fonte: https://ssmaritime.com/)
Il transatlantico "Conte di Savoia", in servizio tra l'Italia e New York fino al 1940 (fonte: https://ssmaritime.com/)

Mussolini come Hitler definì irrilevanti – per la cultura, la ricerca e la formazione – le perdite conseguenti all’espulsione degli ebrei dalle scuole e dalle università. Gli insegnanti e i professori giudei, in quanto inferiori, erano facilmente sostituibili; e nelle università italiane presidi e rettori dettero prova di una sorprendente efficienza nel censirli durante l’agosto 1938,  e poi nel cacciarli e nel rimpiazzarli in tempi rapidissimi, secondo le normative emanate dal 5 settembre. Tutto questo avvenne, come si sa, senza alcuna protesta o reazione pubblica, nel silenzio delle varie comunità accademiche.

Questo silenzio è pesato a lungo, tanto che gli storici parlano di rimozione, o di una sorta di amnesia  dovuta al bisogno di girar pagina, per motivi diversi, da parte sia delle vittime sia dei persecutori e degli spettatori.  All’efficienza dimostrata nell’applicare le leggi antiebraiche nel 1938 hanno fatto riscontro lentezze, disinteresse e una sostanziale non volontà di applicare le innumerevoli disposizioni riparatorie emanate dal 1943 in poi, fino al 1987. Ma anche su questo, e sui mancati o difficili reintegri che andavano a scomodare chi era subentrato e chi aveva partecipato o assistito alle persecuzioni politiche e razziali nelle università, è stata stesa una coltre di ulteriori silenzi o addirittura di false notizie, come evidenziano indagini recenti.

Con il 50° anniversario delle leggi razziali finalmente, nel 1988, si è avuta una spinta a studiare la persecuzione degli ebrei in Italia, che in Germania conta molto più numerose indagini. Nel 1997 Finzi e Ventura hanno ricostruito i primi elenchi non definitivi sul personale cacciato dalle università italiane, sede per sede:  96 professori ordinari espulsi  e circa 140 aiuti e assistenti di vario grado inclusi i volontari.

Ancora oggi, tuttavia,  il bilancio sulle perdite del 1938 nelle università non è del tutto accertato: lo confermano le varie iniziative che un po’ ovunque si sono organizzate per l’80° anniversario delle leggi antiebraiche. Se è facile contare i professori di ruolo, molto più sfuggenti e numerosi sono i casi dei docenti ebrei «dispensati» dal servizio, dei «decaduti» dal titolo della libera docenza, per usare l’ambiguo e minimizzante lessico fascista, di coloro cui semplicemente non venne rinnovato l’incarico. Chi erano? Quanti erano?

Per l’ateneo fiorentino pesantemente colpito,  nel 1999 è stata l’indagine di Francesca Cavarocchi e di Alessandra Minerbi, in un progetto diretto da Enzo Collotti e finanziato dalla Regione Toscana,  a precisare i dati: furono 40 i docenti ebrei, strutturati e precari, allontanati, inclusi 5 professori ordinari.

Il progetto con cui l’Università di Firenze quest’anno ha partecipato al Bando Memoria 2018 della Regione Toscana vuole andare avanti nella ricerca, proponendo nuovi interrogativi. Cosa avvenne dopo le espulsioni? La perdita di alcuni maestri e di molti giovani, le sostituzioni più rapide che adeguate provocarono fratture personali nella comunità accademica, ma anche nei fascistizzati indirizzi disciplinari e nei programmi di ricerca. E cosa fecero, dopo, gli studiosi espulsi? In particolare la nostra ricerca riguarda la scelta, forzata e sofferta, di chi lasciava l’Italia per ritrovare la libertà e per continuare il proprio lavoro all’estero.

New Haven, maggio 1940. Da sinistra Bianca Finzi Contini, la cognata Renata Calabresi, il marito Massimo Calabresi. I bambini sono Paolo (Paul) Calabresi), Guido (John) Tedeschi, Guido Calabresi e Luca Tedeschi (Si ringrazia Guido Calabresi per l'autorizzazione all'utilizzo dell'immagine).
New Haven, maggio 1940. Da sinistra Bianca Finzi Contini, la cognata Renata Calabresi, il marito Massimo Calabresi. I bambini sono Paolo (Paul) Calabresi), Guido (John) Tedeschi, Guido Calabresi e Luca Tedeschi (Si ringrazia Guido Calabresi per l’autorizzazione all’utilizzo dell’immagine).

Anche qui si tratta di individuare nomi, cognomi, posizione accademica, disciplina, e le loro storie. Quanti e quali docenti erano propensi a partire? Non tanto quelli avanti con la carriera e l’età.  Dei 5 ordinari espulsi da Firenze nel ‘38, solo lo stimatissimo Attilio Momigliano che aveva allora 55 anni presentò domanda per trovare un posto in Inghilterra o negli Stati Uniti: sarebbe stato contento di insegnare anche in una scuola secondaria, scrisse il 1°giugno 1939 inviando il suo c.v. ad un collega di New York. Però non partì, scoraggiato e afflitto anche dall’avere sua moglie malata.

Tra gli altri docenti ebrei di varia qualifica dell’ateneo fiorentino furono ben 16 sui 35 espulsi ad andare all’estero, soprattutto da Lettere e da Medicina.  In quanto agli studenti  – e questo è un dato ulteriore che il nostro gruppo di ricerca sta cercando di identificare -, Francesca Cavarocchi ha individuato circa 50 studenti ebrei stranieri che secondo il decreto del 7 settembre 1938 avrebbero dovuto lasciare l’Italia in 6 mesi (mentre a Pisa, Simone Duranti ne ha trovati censiti ben 290, di cui appena 5 rimasti).

A partire dal caso fiorentino, di questa nuova prospettiva di ricerca si discuterà il 18 dicembre nell’Aula Magna del Rettorato la mattina e in quella del Dipartimento Sagas il pomeriggio, in un convegno internazionale su L’emigrazione intellettuale  dall’Italia fascista. Studenti e studiosi ebrei dell’Università di Firenze in fuga all’estero, dove si illustreranno casi rappresentativi da varie discipline di chi si rifugiò negli Stati Uniti o in Israele o in Inghilterra e in America del Sud.

L’impegno però è di non fermarsi all’occasione commemorativa. Per far emergere il sommerso di quell’emigrazione intellettuale tuttora non conosciuta nei numeri, nei percorsi e negli esiti accademici e professionali, si sta lavorando a una ricognizione su Intellettuali in fuga dall’Italia fascista (Firenze University Press), che ha già il patrocinio della New York Public Library e che ne fornisce i percorsi biografici di mobilità, con un data base per ricerche sui dati raccolti.

Finora si sono individuati oltre 250 nominativi di espatriati (cominciando da quanti ebbero a che fare con la Toscana, per nascita o per formazione o professione): quasi tutti ebrei, praticanti o meno, uomini e donne,  italiani e stranieri, e anche gli “incompatibili” con le direttive del fascismo, che per le loro idee erano soggetti a venire sospesi o radiati,  oltre che spiati, minacciati, imprigionati  e peggio.  Alcuni partirono prima come Salvemini, altri dopo il 1938; taluni cambiarono vita e paese due volte e più, come gli ebrei stranieri che erano venuti in Italia e dovettero rifare le valigie oppure nascondersi: da brain gain divennero un brain waste. I precari e giovani che decisero di andarsene costituirono delle perdite effettive ma quasi invisibili, facilmente cancellabili; a differenza dei professori di ruolo, non avevano un posto di lavoro dove eventualmente tornare dopo, e difatti tanti rimasero all’estero. Per quasi nessuno, comunque, fu facile.

Le fonti più rivelative al riguardo, oltre alle lettere e alla memorialistica, non sono le carte delle università italiane che deliberatamente minimizzavano e cancellavano le perdite, proibendo persino i necrologi dei docenti ebrei. Sono invece gli archivi delle università dei paesi di accoglienza e soprattutto quelli delle organizzazioni internazionali per i displaced scholars, sorte per aiutare accademici e professionisti (medici, psicologi, insegnanti ecc.) in fuga dal nazismo e dal fascismo.

L’Emergency Committee in Aid for Foreigner Displaced  Scholars di New York  dal 1933 al ’45 raccolse domande e segnalazioni di circa 6000 studiosi, dalla Germania e poi da altri paesi, con l’Italia al terzo posto per numero. Appunti, brevi interviste, lettere di referenze, veline e scambi di informazioni tra persone che non si conoscevano e non sempre si intendevano,  ci restituiscono frammenti preziosi dell’esperienza migratoria: sia da parte di chi la stava vivendo con grande spaesamento, sofferenza, e determinazione per ritrovare un lavoro e per dare un futuro ai propri figli, sia da parte di chi riceveva queste disperate richieste di aiuto e funzionava come ente di soccorso ma anche di reclutamento a basso costo di illustri professori e giovani talenti come Franco Modigliani o gli altri futuri Nobel.

Emergono anche le prove di chi dall’Italia cercò di aiutare e chi no, i rapporti internazionali di cui godevano tanti studiosi italiani,  le reti di aiuto familiare, il ruolo attivo delle donne.  Considerate tuttora essenzialmente mogli al seguito di intellettuali e professionisti, anche quando erano dotate di titoli e qualifiche, le donne costituiscono la parte più nascosta dell’emigrazione intellettuale. Nelle decisioni familiari contava ovviamente anche l’eventuale presenza di figli e il loro avvenire. Adolescenti,  bambine e bambini partivano con uno o entrambi i genitori oppure, affidati ad altri,  li raggiunsero dopo e completavano la propria formazione all’estero. Ebbero di solito meno difficoltà della precedente generazione  e taluni raggiunsero posizioni prominenti. Nell’elenco degli Intellettuali in fuga dall’Italia fascista  vorremmo rendere visibili anche loro.

La scelta di pubblicare un data base in open access e in continuo aggiornamento è legata alla speranza di ottenere segnalazioni e documentazione ulteriori da altri studiosi e da chiunque ne sia informato.

Lungi dal minimizzare le conseguenze della persecuzione razziale, questa ricerca ne evidenzia le responsabilità che ci furono anche dopo il fascismo,  quando molte delle perdite di risorse umane e intellettuali il cui potenziale era spesso cresciuto nell’esperienze fuori d’Italia diventarono perdite invisibili e definitive, per avere accordato, nelle Facoltà, la continuità e la preferenza a chi ormai c’era. Serve a prendere consapevolezza non solo delle ingiustizie recate alle vittime di cui si continua a fare una storia separata, ma dei danni arrecati a tutto il paese .

 

 


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