L’Europa dalla catastrofe all’unità

In occasione dell'anniversario della fine della Prima Guerra Mondiale, una riflessione di Sandro Rogari che abbraccia lo sviluppo della storia degli ultimi cento anni in Italia e in Europa. Il testo integrale e il video della lezione tenuta in Aula Magna domenica 4 novembre 2018.
Sacrario Militare dei Caduti della Prima Guerra Mondiale di Redipuglia - Archivio fotografico 123rf.com - Riproduzione riservata foto catastrofe unità
Sacrario Militare dei Caduti della Prima Guerra Mondiale di Redipuglia - Archivio fotografico 123rf.com - Riproduzione riservata

Cento anni. Tanti ne sono passati dalla conclusione della grande guerra. Viene spontaneo quindi fare un consuntivo della storia d’Italia e d’Europa.

Per la prima, la guerra è stata un disastro sotto tanti profili. Sotto il profilo politico, perché ha segnato la crisi e la fine traumatica della classe dirigente liberale, senza che vi fossero forze saldamente democratiche capaci di raccoglierne il testimone. Sotto il profilo umano, perché 651 mila soldati e 589 mila civili morti, oltre al più di un milione di feriti e mutilati, provocarono al paese lutti e dolori indicibili, senza precedenti nella storia dell’Italia moderna. E sotto il profilo costituzionale perché il governo di Salandra e Sonnino perseguì col Patto di Londra la politica del fatto compiuto, forzando il Parlamento e il paese a una guerra che la maggioranza non voleva. Si trattò di un precedente grave, che indebolì le istituzioni e precostituì quanto avvenne con la marcia su Roma, quando il sovrano si piegò al ricatto fascista incaricando Mussolini di formare il governo.

Né la guerra fu fatta, come ritennero gli interventisti democratici, da Salvemini a Bissolati, per il riscatto delle terre irredente. Trento e Trieste furono utilizzate come bandiera per contrabbandare la guerra come quarta guerra del Risorgimento, ma le intenzioni del governo di Salandra e Sonnino erano ben diverse. Si desiderava isolare e rendere impotente Giolitti e la sua maggioranza e si programmava un conflitto con forti mire espansive, secondo la logica di una nazione aggressiva e imperialista che niente più aveva a che vedere con l’idea di nazione coltivata da Mazzini con la Giovine Italia.

Per l’Europa, la guerra significò la catastrofe. Il vecchio continente era sceso in guerra per motivazioni complesse che andavano ben al di là dell’assassinio del granduca Francesco Ferdinando e della consorte, a Sarajevo. Cruciale era stata la volontà dell’assalto al potere mondiale.

Il paradosso della guerra fu che le nazioni europee accelerarono il riequilibrio dei poteri nel mondo a scapito della centralità che gli stati nazionali europei avevano mantenuto durante tutta l’età moderna. Solo il neoisolazionismo degli Stati Uniti e l’isolamento dell’Unione Sovietica crearono l’illusione fra le due guerre che gli stati nazionali europei avessero mantenuto centralità negli equilibri di potere mondiali. La seconda guerra mondiale si occupò di determinare l’annientamento dell’Europa che ne uscì divisa e sottomessa al dominio delle grandi potenze, Stati Uniti e Unione Sovietica.

Fu subito chiaro agli spiriti europei più illuminati, fra le due guerre, che la degenerazione aggressiva e imperiale degli stati nazionali avrebbe condotto di nuovo l’Europa al massacro. Il ministro degli Esteri francese Aristide Briand, premio Nobel per la pace, presentò alla Società delle Nazioni, col sostegno del ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar Gustav Stresemann, il progetto dell’Unione Europea per rilanciare la convergenza fra ventisette stati d’Europa in un quadro sovranazionale. Ma le risposte furono tiepide quando non negative.

La grande crisi esplosa negli Stati Uniti nell’ottobre 1929 stava dilagando anche in Europa secondo i processi di un mondo nel quale capitali e finanza erano globalizzati e le interdipendenze accentuate in conseguenza della grande guerra.

In breve, la grande crisi divenne crogiolo di espansione del fenomeno fascista e viatico di ascesa al potere di Hitler e del nazionalsocialismo. Era La guerra che torna, come scrisse Carlo Rosselli nel novembre 1933. Di fronte alla caduta della Francia nel giugno 1940, Churchill lanciò al governo francese il progetto di Unione franco britannica per unire le forze nella lotta ad oltranza contro la Germania. Il progetto cadde nel vuoto, ma l’anno successivo nell’esilio di Ventotene, due antifascisti italiani Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi scrissero il Manifesto programmatico per la costituzione di una Federazione sovranazionale in Europa, ispirandosi ai Federalist papers di Hamilton, Madison e Jay, fondamento della costituzione degli Stati Uniti. Due anni dopo, il Movimento federalista europeo diveniva un movimento antifascista e resistenziale transnazionale volto a mobilitare le coscienze degli europei verso l’unica via utile a sostenere la ripresa dell’Europa che uscì dalla seconda guerra mondiale in macerie e soggetta a spartizione per aree di influenze delle grandi potenze. Due guerre mondiali, infatti, avevano annientato gli stati nazionali europei e i relativi imperi.

La sola via di resurrezione, faticosa ma obbligata era quella dell’Unione, anche per garantire che il vecchio continente divenisse area di pace. Fu un cammino intrapreso con entusiasmo nell’immediato dopoguerra grazie all’impegno di grandi europeisti provenienti da paesi vincitori e vinti: Einaudi, De Gasperi, Adenauer, Monnet e Schumann si batterono per la creazione del Consiglio d’Europa e della Comunità del carbone e dell’acciaio. Il ministro francese Pleven promosse nel 1952 il progetto di Comunità europea di difesa. Sarebbe stato il definitivo consolidamento del progetto politico di Federazione perché la perdita dell’autonomia militare avrebbe costretto gli stati aderenti, l’Europa dei sei, a creare un organo federale di gestione della politica militare. Ma il progetto fallì nel 1954 per la mancata ratifica francese.

Da allora l’Europa si convertì alla ricerca dell’integrazione economica, subendo due battute d’arresto sul piano politico: negli anni ’60 per l’avversione di De Gaulle alla perdita di sovranità e per la sua ricerca di una guida francese dell’Europa dei sei; e negli anni ’70 per la svalutazione del dollaro e la crisi energetica. Ma l’allargamento a Regno Unito, Irlanda e Danimarca, nel 1973; poi a Grecia, Spagna e Portogallo negli anni ’80, assieme all’introduzione dell’elezione diretta del Parlamento europeo e alla creazione del Sistema monetario europeo nel 1979, segnarono le tappe della ripresa del processo di integrazione. Con l’Atto unico (1986) venne fatto un ulteriore salto in avanti di natura politica anticipando quanto avvenuto con Maastricht e la nascita dell’Unione quando ancora non era stato abbattuto il muro di Berlino e non si era esaurita la guerra fredda.

La storia dell’Unione negli ultimi venticinque anni ha oscillato fra alti e bassi. Dall’entusiasmo iniziale siamo passati all’attuale diffusione dell’euroscetticismo. I motivi sono svariati, ma sono riconducibili soprattutto agli errori compiuti nella crisi greca e nella gestione della questione delle immigrazioni. Ma l’euro e la Banca centrale Europea sono stati un grande baluardo di stabilità della moneta e della tenuta del debito sovrano dei singoli stati.

Oggi è necessario andare avanti nel dare maggiore forza politica all’Unione. La crisi attuale si supera rilanciando l’Europa. Ogni arretramento sarebbe deleterio e foriero di nuove sventure per i popoli europei.

 

L’autore ha tenuto domenica 4 novembre 2018 una lectio magistralis sul tema “1918-2018: guerra e pace. Europa e Italia dalla catastrofe all’Unione”, per iniziativa dell’Ateneo insieme alla Prefettura di Firenze,  nell’ambito delle celebrazioni dell’Unità Nazionale e della giornata delle Forze Armate. Scarica il  testo integrale della lezione

 


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