Perché comunicare la scienza

La divulgazione del sapere oggi è messa alla prova dalle tante informazioni che raggiungono ciascuno di noi. La sfida è condividere non solo i risultati, ma anche i metodi di lavoro.
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Il noto virologo Burioni ha recentemente dichiarato che la scienza non deve essere democratica, ma dare il diritto di parola soltanto a chi ha studiato.

Il concetto vuole sottolineare l’esigenza di dar voce a chi è competente. Ma rischia di essere frainteso per la sua assertività, che evidenzia propri i limiti di molta comunicazione scientifica, ancora improntata a una logica pedagogica e a una visione meramente trasmissiva e verticale della comunicazione.

Sappiamo benissimo che Burioni “predica male e razzola bene”, perché in realtà ha una collaudata capacità di coinvolgimento del pubblico, come dimostra il suo fortunato attivismo sui social. Tuttavia, la sua dichiarazione ci consente di sottolineare come non sia più possibile trascurare la forma dei nostri messaggi comunicativi, oltre che la correttezza della sostanza.

Il motivo di tale necessità risiede nella continua moltiplicazione degli ambienti comunicativi ai quali la maggior parte degli individui si espone.

La maggior parte delle persone ha visto espandersi negli anni gli ambienti sociali in cui intreccia le proprie relazioni sociali: la famiglia, la scuola, il lavoro, le attività del tempo libero, le forme di partecipazione politica, religiosa, associativa. Per limitarsi soltanto alle principali.

A tale ricchezza si aggiungono le tante situazioni sociali che si conoscono mediaticamente: prima attraverso i libri e i giornali, poi grazie ai media elettronici, ora con l’infinita eterogeneità della comunicazione digitale.

Pertanto cresce enormemente la capacità di comparazione dei tanti contesti in cui ci troviamo. Per ciascuno dei pur diversificati ruoli sociali che svolgiamo – padre, marito, figlio, docente, iscritto a un partito o socio di un’organizzazione religiosa piuttosto che ambientalistica – le modalità di svolgimento sono sempre più varie. Per restare in ambito universitario, bastano soltanto pochi anni d’esperienza per sapere che non esistono gli studenti, ma migliaia di modi diversi di esserlo, e la stessa cosa vale per i docenti.

Questa ricchezza può essere gestita in tanti modi, o anche sprecata, ma evidenzia come chiunque sia il nostro interlocutore –  nel lavoro come nella vita privata, per strada oppure allo stadio – non possiamo ritenerlo una “tabula rasa”, da riempire come vogliamo.

Ormai la platea degli interlocutori è quasi interamente abitata da individui che non pendono più dalle labbra di pochissime bocche, ma hanno a disposizione facili percorsi per effettuare confronti.

Dunque, la credibilità non può essere più data soltanto dal ruolo, ma deve essere costruita nel ruolo. Così come non posso più dire a mio figlio che deve ubbidirmi perché sono suo padre, ma spiegargli le ragioni per cui auspicherei un suo determinato comportamento; analogamente un medico non può sfuggire alle richieste d’informazioni di un suo paziente; deve ascoltarlo, anche nelle ingenue comparazioni fra quanto dichiarato dal professionista e letture casomai superficiali o distorte di siti medici.

Ugualmente, anche chi fa ricerca deve preoccuparsi di rendere conto in modo chiaro e trasparente ai cittadini di quello che fa, senza mai dare nulla per scontato. Come ricorda Bruce Alberts – ex direttore di Science – la maggior parte dei cittadini non ha mai conosciuto in vita sua uno scienziato. Bisogna raccontargli, quindi, come lavora la scienza.

Fra le tante altre cose, far conoscere metodi e vita quotidiana degli scienziati serve anche a disvelare due caratteristiche del nostro modo di lavorare. Innanzitutto, la logica del confronto e della sempre maggiore competizione internazionale, che rende più difficile di quanto non si creda la supina dipendenza dalle volontà del potere economico oppure politico, accusa spesso rivolta alla “scienza ufficiale”. In secondo luogo, la centralità del dubbio, la continua messa in discussione davanti a prove che confutano le ipotesi di partenza devono essere sottolineate come conferma della forza della scienza, proprio perché respinge la dogmaticità; ma vanno ben spiegate in un mondo in cui spesso la conseguenza della ricchezza comparativa prima descritta è proprio il senso di smarrimento degli individui, pronti ad affidarsi a chiunque riesca a blandirli efficacemente con facili certezze. La cronaca – anche recentissima –  del nostro Paese è ricca d’esempi a cui tutti potremmo attingere.

Come spesso ricordava un grande divulgatore italiano recentemente scomparso, Giovanni Bignami: all’uomo non resta che conoscere e condividere. Siamo abbastanza bravi nel fare la prima cosa, dobbiamo iniziare a pensare che la seconda non è meno rilevante.

 

[L’articolo riprende i temi svolti dall’autore nell’intervento di apertura della 14° edizione di ScienzEstate]

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