Misure statistiche per la valutazione dell’efficacia di un vaccino

Tre studiose del Disia hanno evidenziato i punti da tenere presente per svolgere un'analisi, interpretare i risultati e il loro significato quando ci si riferisce alla protezione del singolo individuo e della popolazione più in generale
Archivio fotografico 123rf.com - Riproduzione riservata
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La seconda ondata della pandemia da SARS-Cov-2 è stata caratterizzata dall’attesa e dalle anticipazioni sui risultati degli studi di efficacia e sicurezza dei vaccini COVID19. La pubblicazione dello studio clinico condotto sul vaccino sviluppato dall’azienda farmaceutica Pfizer (da Polack e altri autori su The New England Journal of Medicine) e quella di pochi giorni fa sul vaccino Moderna (da Baden e altri studiosi sempre su The New England Journal of Medicine) hanno suscitato diverse discussioni sull’interpretazione dei risultati stessi e il loro significato in termini di protezione individuale e a livello di popolazione.

Come statistici e biostatistici del DISIA, dipartimento che svolge ricerca di eccellenza su disegno e analisi di studi sperimentali e osservazionali in campo economico, sociale, demografico e, non ultimo, in campo medico, riteniamo importante evidenziare alcuni punti fondamentali che dovrebbero essere sempre ben definiti quando si effettua un’analisi statistica di efficacia e quando se ne leggono i risultati.

Definire la variabile di risultato

Il vaccino è stato valutato in base al rischio di ammalarsi di COVID19, ovvero in base al rischio di infezione sintomatica per un periodo medio di un mese e mezzo, a partire dalla settimana successiva alla somministrazione della dose di richiamo. Facendo riferimento allo studio Pfizer, su 17411 soggetti vaccinati e su 17511 soggetti non vaccinati sono rispettivamente 8 e 162 gli individui che si sono infettati e hanno manifestato almeno un sintomo (febbre, tosse, mancanza di respiro, brividi, dolori muscolari, perdita di gusto o olfatto, mal di gola, diarrea, vomito). Il rapporto 8/17411=0,046 % è dunque la stima della probabilità (rischio) di infettarsi e ammalarsi se vaccinati (46 malati ogni centomila vaccinati), mentre 162/17511=0,925 % (925 malati ogni centomila non vaccinati) è la stima della probabilità (rischio) di infettarsi e ammalarsi se non vaccinati. In altre parole, gli individui che hanno contratto una forma asintomatica dell’infezione non sono conteggiati tra i casi. Dato che essi non entrano nel calcolo delle due probabilità, lo studio Pfizer al momento non dà informazione circa la probabilità di contrarre l’infezione da SARS-Cov-2, di contrarla cioè in qualsiasi sua forma, inclusa quella asintomatica.

L’importanza di questo punto sta nel fatto che, in base alle informazioni finora pubblicate, non è detto che il vaccino protegga dall’infezione, pur prevenendo lo sviluppo della malattia COVID19. Al punto 11 del vademecum dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA 2020) sul vaccino Pfizer si afferma infatti che “gli studi clinici condotti finora hanno permesso di valutare l’efficacia del vaccino COVID-19 mRNA BNT162b2 (Comirnaty) sulle forme clinicamente manifeste di COVID19 ed è necessario più tempo per ottenere dati significativi per dimostrare se i vaccinati si possono infettare in modo asintomatico e contagiare altre persone. Sebbene sia plausibile che la vaccinazione protegga dall’infezione, i vaccinati e le persone che sono in contatto con loro devono continuare ad adottare le misure di protezione anti COVID-19”.

Lo studio sperimentale sul vaccino Pfizer non ha indagato l’efficacia della vaccinazione nel prevenire conseguenze gravi della malattia (morte, ricovero) e non ha esplorato la durata dell’efficacia vaccinale, perché i soggetti che hanno partecipato alla sperimentazione sono stati seguiti, al momento, per pochi mesi.

Per essere precisi, dato che ciascun partecipante è stato osservato per più o meno tempo a seconda di quando ha ricevuto la prima iniezione, nell’articolo sulla sperimentazione Pfizer, anziché i rischi, sono stati correttamente calcolati i tassi di incidenza di malattia sintomatica, come rapporto tra il numero dei casi e il tempo di osservazione complessivo fino alla fine dello studio o alla manifestazione di malattia COVID19. In altre parole, è stato dato agli individui al denominatore un peso proporzionale al tempo di osservazione. Tuttavia, data la breve durata dello studio e il fatto che il numero dei casi è esiguo rispetto al totale dei partecipanti, la differenza tra tasso e rischio è da ritenersi trascurabile.

Definire l’effetto causale e le misure di efficacia

Come vengono confrontate le due probabilità calcolate al punto precedente per produrre una misura di efficacia? Usualmente se ne fa il rapporto, stimando il cosiddetto rischio relativo (nel caso di tassi si calcola il rapporto tra tassi, ma ancora una volta i risultati sono sovrapponibili). In questo caso 0,925%/0,046%=20,11. Significa che una persona non vaccinata ha una probabilità di infettarsi e ammalarsi 20 volte maggiore rispetto ad una persona vaccinata; specularmente una persona vaccinata cioè ha un rischio di infettarsi e ammalarsi che è solo pari al 5% dello stesso rischio per una persona non vaccinata (0,046%/0,925%=0,05). Come si arriva al 95% di efficacia di cui si parla e quale è il suo significato? Ci si arriva calcolando 100%-5%. Questa è la cosiddetta frazione attribuibile di malattia: il 95% delle persone che si sarebbero infettate e ammalate se non vaccinate non si ammalano se vaccinate. Stando a questi numeri, di 100 infezioni sintomatiche, il vaccino ne può evitare 95. Di 1.000 ne può evitare 950 e così via.

Quantificare l’impatto nel contesto

Con riferimento ai dati della sperimentazione, è possibile calcolare la riduzione di rischio assoluta, la differenza cioè tra i due rischi: 0,925%-0,046% = 0,879%. Perché questa differenza è così piccola? Perché dipende dal rischio di malattia nella popolazione nel periodo di osservazione (0,925% nel gruppo di controllo). Sarebbe più grande se la malattia COVID19 fosse più diffusa. La percentuale 0,879% ci dice che in una popolazione dove il rischio di malattia COVID19 è come quello riscontrato nel campione dello studio Pfizer, ogni 1000 vaccinati i casi evitati su una finestra temporale di ampiezza uguale a quella della sperimentazione sono circa 9. Il reciproco di questa differenza tra rischi è il cosiddetto il cosiddetto Number Needed to Treat (NNT), il numero di soggetti cioè che è necessario trattare per evitare un caso di malattia. Sempre con riferimento alla stessa popolazione e alla stessa finestra temporale, il Number Needed to Treat è 1/0,879%=114: ogni 114 vaccinati si evita un caso di malattia.

A parità di efficacia del vaccino, il numero di casi di malattia evitati e quindi l’NNT dipendono dalla diffusione del contagio nella popolazione e dal rischio di malattia COVID19 negli infetti. Per fare un esempio puramente teorico, supponiamo che in una popolazione di 1 milione di individui, nel corso di 3 mesi contragga l’infezione il 3% dei soggetti (30000 nuove infezioni). Di questi, il 60% (18000) sia sintomatico. Vaccinando tutta la popolazione (1 milione di vaccini) e assumendo che l’efficacia del vaccino sia quella stimata nella sperimentazione, ovvero pari al 95%, è possibile evitare 17100 casi di infezione sintomatica (il 95% di 18000), che rappresentano l’1,71% della popolazione. In altre parole si evita un caso di malattia COVID19 ogni 58 vaccinati (1/0,0171=58).

Quantificare attraverso misure appropriate il carico di malattia evitabile tramite la vaccinazione è importante perché consente valutazioni riferite allo specifico contesto in cui il trattamento è applicato, contesto che cambia nello spazio, con le caratteristiche demografiche e il profilo di salute della popolazione che si considera, e nel tempo, con l’evolvere delle dinamiche di contagio. Accanto all’NNT, si potrebbe calcolare il Number Needed to Harm (NNH), ovvero il numero di individui che è necessario vaccinare prima di vedere un effetto avverso importante della vaccinazione. Queste due misure sono usate in farmaco-epidemiologia per valutare la costo-efficacia dei piani di trattamento.

Quantificare l’incertezza

Le stime delle misure di rischio, di efficacia e di impatto, come l’NNT, sono soggette a incertezza. Le fonti di incertezza che intervengono quando si fanno valutazioni statistiche sono molteplici e diventano ancora maggiori quando i risultati vengono estesi a contesti differenti da quello studiato. Facendo qui riferimento alla sola incertezza campionaria, quella che si incontra quando si estende il risultato ottenuto su un campione di soggetti alla popolazione da cui il campione deriva e che è espressa dall’intervallo di confidenza attorno alla stima, essa dipende dalla numerosità del campione. Lo studio Pfizer produce stime stabili, con intervalli di confidenza “stretti” per l’efficacia (stima di efficacia 95% con intervallo di confidenza al 95% tra 90,0% e 97,9%), quando si considerano tutti i soggetti arruolati. Se invece si guardano i risultati ottenuti per le diverse classi di età si nota che la stima di efficacia sulle due classi di età più anziane (dai 65 ai 75 anni, oltre i 75 anni), seppure elevata, è caratterizzata da elevata incertezza (ampi intervalli di confidenza). Questo deriva dal fatto che lo studio ha arruolato soprattutto soggetti più giovani. Anche se è ragionevole ritenere che l’efficacia possa essere la stessa al variare dell’età, sarebbe importante approfondire la solidità del risultato sulle categorie di soggetti a maggior rischio di forme gravi di malattia.

Conclusione

In sintesi, lo studio Pfizer dimostra che il vaccino protegge dalla malattia COVID19 (intesa come malattia sintomatica), ma non è stato verificato che protegga dal contrarre l’infezione in forma asintomatica. Al momento ci si vaccina per proteggere noi stessi, e si spera che questo serva anche a proteggere gli altri, ma si devono comunque adottare misure di protezione e distanziamento. Insomma il vaccino non ci libererà dal giogo del distanziamento sociale ancora per un po’.

Il consolidamento delle evidenze scientifiche potrà guidare nella pianificazione di piani di vaccinazione estesi che siano adeguati alla tipologia e durata della protezione fornita dal vaccino e al contesto in cui sono applicati. Affrontare gli argomenti in modo chiaro e senza alimentare la polarizzazione delle posizioni è la soluzione più consona per non generare e alimentare diffidenze sui risultati della ricerca scientifica.

Altri contributi intorno alla ricerca sul COVID 19, a cura dei ricercatori del DISIA, sono disponibili online

[Michela Baccini, Fabrizia Mealli, Carla Rampichini]

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