Un modo in cui, a mio parere, non va comunicata la letteratura è il modo in cui è stata comunicata a me (e alla mia generazione) quando ero studente universitario. Questo modo risponde a un imperativo categorico: la letteratura consiste nei testi, tutto è nel testo, ciò che è fuori del testo non conta nulla, non importa. Fuori della testualità c’è il vuoto. Dire che la letteratura consiste interamente nei testi, parrebbe una cosa ovvia. Ma ovvia non è, e porta anzi con sé effetti notevolissimi. Ne elenco alcuni:
- l’esclusiva attenzione ai testi porta a uno studio tecnicistico, che è importante ma non può essere l’unico; porta a privilegiare esclusivamente l’aspetto verbale, linguistico, lessicale, sintattico, espressivo, formale;
- questa strada ha condotto all’inflazione, anche sui banchi di scuola, della narratologia: degli attanti, del narratore eterodiegetico, omodiegetico, autodiegetico, con il risultato maligno di trasformare in tormento la lettura di testi che sono stati concepiti per essere avvincenti e appassionanti;
Molto disamore e molto disinteresse nei confronti della letteratura viene da questo modo di insegnarla e comunicarla. Invece la letteratura ha grandi potenzialità di coinvolgimento e importante è trovare il modo adeguato di farla conoscere.
Considero importante una forma di comunicazione che sappia correlare, intrecciare, connettere piani diversi: testualità e biografia degli autori, storia e geografia, clima culturale e fisicità dei luoghi (la cosiddetta geocritica), la conoscenza degli ambienti sociali e degli ambienti naturali.
Nei primissimi anni del 900, a Firenze, D’Annunzio vive alla Capponcina, la villa quattrocentesca di Settignano, tra cani, cavalli e belli arredi come un principe rinascimentale, e la rivista «La Voce», che segna l’apertura verso la poesia moderna, negli stessi anni e nella stessa città, nasce in un appartamentino di tre stanze, preso in affitto, 80 scalini senza ascensore, in un modesto edificio all’attuale numero civico 50 di via dei Della Robbia: i luoghi, l’aria che si respira, le scale e gli scalini, la dicono lunga sulla distanza tra la poesia estetizzante del periodo liberty e la nuova poesia dell’autocoscienza moderna.
Tanto per non fare nomi, mi viene in mente un passo di Umberto Eco (da Sei passeggiate nei boschi narrativi, del 1994). Il passo dice così: «Vi dico subito che a me dell’autore empirico di un testo narrativo (in verità, di ogni testo possibile) importa assai poco». Peccato, viene fatto di dire, perché la testualità, da sola, può fare male. Invece va difeso il valore ermeneutico delle indagini biografiche: non dell’aneddotica biografica, ma della pertinente valorizzazione dell’esperienza biografica, resa funzionale a una migliore intelligenza dell’opera.
L’esigenza di stretta connessione tra testo, biografia, geografia, storia, mi fa venire in mente un passo di Benedetto Croce. Il passo è questo: «I poeti non vengono da altri poeti ma dalla madre terra, cioè dalla vita che li esprime, dopo avere riassorbito in sé tante cose ed anche i poeti precedenti». (Benedetto Croce a Emilio Cecchi, 11 dicembre 1911).
Cosa dice questo passo? Dice una cosa importante. Dice che il mondo della letteratura non è un mondo di carta (dove i poeti vengono da altri poeti): questo lo credono i formalisti e i teorici dell’esclusiva testualità. Il passo di Croce dice che i poeti vengono anche da altri poeti, ma prima di tutto vengono dalla vita, dopo avere riassorbito in sé tante cose. Ecco: proprio il riassorbimento di queste tante cose, rende necessaria la connessione dei piani, per cogliere, conoscere, percepire queste tante cose, tratte dalla vita, queste tante cose che costituiscono la linfa, il sugo, l’anima, la sostanza vitale dell’opera letteraria.
C’è un altro modo in cui non va comunicata la letteratura: è un modo in uso oggi nel mondo della comunicazione commerciale, nel mondo dei giornali, della televisione, dei festival di letteratura, delle alte tirature editoriali: vi si comunica un’idea di letteratura come intrattenimento seduttivo, come spettacolo culturale, come regno della fantasia, come gioco. Questo è un modo di comunicare la letteratura che ha portato, per esempio, al successo del genere giallo e del genere noir (un quotidiano a diffusione nazionale ha provveduto nell’arco di qualche anno a confezionare per i suoi lettori oltre 120 volumi di romanzi gialli e neri: tra Italia Noir, Mondo in noir, Noir italiano, Noir Junior, e via dicendo, per tutte le età). Siamo sulla linea del postmoderno, della letteratura come passatempo, come gioco di parole, come edonismo, come turismo culturale.
A questo proposito mi pare opportuna una citazione da uno studioso francese (oggi 88enne), George Steiner. È un passo del 2015, preoccupante per chi si occupa di letteratura: «Può darsi – faccio questa ipotesi dopo sessant’anni d’insegnamento e di amore per le lettere – che gli studi umanistici rendano disumani. Che, lungi dal renderci migliori, lungi dall’accrescere la nostra sensibilità morale, la facciano diminuire. Ci allontanano dalla vita, conferiscono alla finzione una tale intensità da far impallidire la realtà» (La passione per l’assoluto, Milano, Garzanti, 2015, p. 106).
Sono parole preoccupanti, perché appartengono a uno studioso che alla letteratura ha sempre assegnato un ruolo etico e civile. Perciò sono parole che fanno riflettere. Negli anni Sessanta, infatti, nel periodo dello scontro tra le due culture, di fronte agli scienziati che squalificavano il valore delle ricerche artistiche, per il primato della scienza, Steiner si è schierato senza esitazione sul versante umanistico.
Con addosso le ferite non rimarginate del secondo conflitto mondiale, si faceva domande, sul significato della cultura umanistica e letteraria dopo Auschwitz. Si chiedeva se avesse ancora senso leggere i grandi capolavori letterari, dopo che la storia recente aveva mostrato che i carnefici potevano essere lettori di Shakespeare o di Goethe, che la lettura di questi grandi autori in nulla aveva modificato l’atroce istinto belluino degli aguzzini. E rispondeva di sì (nel saggio Humanae litterae), perché, affermava, nonostante tutto la poesia aiuta a «rendere il futuro meno vulnerabile al disumano». Per quale ragione oggi ha cambiato idea? Steiner non dà una risposta.
Eppure la risposta si può trovare proprio nei connotati della letteratura attuale, nell’euforia di mercato che nutre e alimenta la letteratura d’oggi, i libri di oggi che sono in cima alle classifiche. Si tratta di connotati che caratterizzano la letteratura contemporanea ormai da tempo, direi dagli anni Ottanta del secolo scorso, quindi ormai da più d’un trentennio. La letteratura dell’«astrazione» potente è la letteratura come finzione assoluta, come gioco della fantasia, come intrattenimento, come evasione, come fuga dal mondo su cui poggiamo i piedi. L’effetto è, per l’appunto, un’«intensità» di «finzione», tale da fare «impallidire la realtà», rendendoci «disumani». Vale la pena citare un giovane romanziere, oggi di successo, autore di romanzi neostorici, romanzi che sono passeggiate turistiche e spettacolari nei sentieri fantastici del passato: «Questo mio lavoro è un gioco in cui mi diverto moltissimo: […] un perfetto videogame». Così accade che non si ha dinanzi agli occhi la realtà, ma lo spettacolarizzazione della realtà, la realtà ridotta a spettacolo, la realtà televisiva, la realtà dei reality, la realtà finta e manipolata. Questa letteratura «lungi dall’accrescere la nostra sensibilità morale», la «fa diminuire»; questa letteratura «conferisce alla finzione una tale intensità da far impallidire la realtà»; questa letteratura allontana dalla vita; questa letteratura rende disumani.
La letteratura non è un gioco della fantasia, ma è una forma unica di conoscenza, un invito a aprire gli occhi su noi e sul nostro presente; un invito a guardare con occhi disincantati quanto ci sta intorno e il nostro rapporto con quanto ci sta intorno, il nostro inserimento nel mondo.
[L’articolo riprende i temi svolti dall’autore nell’intervento di apertura della 14° edizione di ScienzEstate]