In grotta come al cinema

Per esprimere i propri stati d'animo l'homo sapiens si affidava a pitture, incisioni, bassorilievi. Oggi questo stesso compito viene svolto dal grande schermo

Nell’immaginario collettivo la grotta si identifica con la preistoria, specialmente quella più antica. La grotta viene vista come il riparo dei cacciatori paleolitici dalle intemperie, dal freddo glaciale, dall’assalto delle faune carnivore. Ma in verità la grotta è un mondo complesso, dove sacro e profano convivono, dove gli uomini preistorici conducevano le loro attività quotidiane, la fabbricazione dei manufatti, la macellazione delle prede, dove i focolari proteggevano dal clima rigido ma nello stesso tempo costituivano un’occasione di vicinanza e di coesione del gruppo.

La grotta era anche il luogo dove si seppellivano i defunti, che nello spazio della memoria della tomba continuavano ad essere una presenza nello spaio dei viventi. Non ultimo, la grotta era anche il “santuario” (possiamo usare impropriamente questo termine che comunque rende l’idea) dove si compivano le attività non utilitaristiche, dove le cerimonie, i riti, le azioni “sacre” si materializzavano attraverso immagini, suoni, danze.

La grotta è anche il mondo della cosiddetta arte preistorica, cioè di quell’immenso patrimonio di segni e figurazioni che tutti conosciamo grazie ad importanti monumenti quali Grotta Lascaux o Grotta Chauvet (solo per citarne due molto mediatiche). Pitture, incisioni, bassorilievi ricoprono le pareti e le immagini rimandano a significati profondi di quelle culture, ovvero il mondo animale, la caccia, la fertilità femminile, rimandano alle domande – spesso senza risposta – che Homo sapiens, da allora ad oggi, si pone, rimandano agli stati dell’anima, alla nostra interiorità più profonda, ai misteri della vita, al mondo del “non reale” nel quale non abbiamo accesso. Nel buio della grotta immagini e suoni sono compenetrati e in una esperienza multisensoriale nel silenzio della caverna gli stati d’animo più intimi prendono forma attraverso le pitture.

Tutto questo nelle grotte dipinte. E il cinema cosa c’entra con tutto questo? Il legame è strettissimo: al cinema come in grotta buio, suoni, figure raccontano storie, emozioni, paure, lo schermo diventa lo specchio della nostra interiorità e lo spettatore, solo con sé stesso, si affida alle immagini che comunicano quanto le parole spesso non sanno comunicare. In grotta come al cinema, quindi, dove l’arte (o meglio le arti) diventa uno strumento di comunicazione, di consapevolezza e di crescita.

Questo filo conduttore ispira Firenze Archeofilm, Festival Internazionale del Cinema di Archeologia Arte Ambiente, organizzato dalla rivista Archeologia Viva. L’Università di Firenze ha patrocinato il Festival sin dalla prima edizione ritenendo che l’iniziativa concorra alla informazione e alla formazione del largo pubblico e contribuisca alla valorizzazione dei settori di studio e di ricerca che si collegano ai temi trattati nel Festival. Uno dei riconoscimenti che viene attribuito nel corso della manifestazione, insieme al premio “Firenze Archeofilm” per il filmato più votato dal pubblico e il premio “Museo e Istituto Fiorentino di Preistoria” assegnato al miglior filmato di archeologia preistorica, è infatti il premio “Università di Firenze” – per il 2021 assegnato alla pellicola “Egitto: i tempi salvati” di Olivier Laimaitre.

Il premio è stato attribuito, come recita la motivazione, “per il sapiente uso dei filmati e dei documenti d’archivio, grazie ai quali il documentario illustra gli sforzi e le energie politiche, imprenditoriali e scientifiche messe in campo per salvare le preziose vestigia archeologiche ed architettoniche dell’Antico Egitto, un patrimonio messo al sicuro dalla risalita delle acque del Nilo e tramandato così alle generazioni future”.
“A questo – prosegue il testo – si aggiunge la capacità di costruire un dialogo con la realtà del ‘900 e per aver raccontato, con competenza ed equilibrio tra ricerca e divulgazione, una storia esemplare che rappresenta uno stimolo per chi crede nella necessità e nel dovere di conservare la memoria delle antiche civiltà passato”.

La giuria composta da docenti dell’Ateneo fiorentino ha attribuito anche una menzione speciale a “Bakthiari sulle pendici di Oshtrankuh” (regia Mohammadreza Hafezi). “Oltre all’interessante ed originale contenuto – si legge nella motivazione – il film si distingue per la tensione del racconto, il rigore formale, l’uso sorvegliato dei suoni e della musica, l’ottimo coordinamento tra voce narrante e inquadrature”.


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