L’inquinamento dei mari causato dalla plastica è una delle emergenze ecologiche mondiali. La conferma scientifica della rilevanza e della gravità del fenomeno arriva da uno studio internazionale pubblicato su “Environmental Science & Technology”, a cui ha partecipato Stefano Cannicci, docente di Zoologia dell’Università di Firenze, unica istituzione italiana partecipante.
Nella ricerca guidata da studiosi dell’Università di lingua cinese di Hong Kong (“Fate and Effects of Macro-and Microplastics in Coastal Wetlands” https://doi.org/10.1021/acs.est.1c06732) sono stati passati al vaglio e standardizzati i dati contenuti in 112 lavori scientifici riguardanti l’inquinamento da macroplastica e microplastica in numerose zone umide costiere di tutti i continenti del mondo. Il risultato medio finale non lascia spazio ad interpretazioni: negli animali marini si trova una quantità di microplastiche pari a circa 200 volte quella presente nell’acqua.
“Per convenzione – spiega Stefano Cannicci – si definiscono microplastiche i pezzetti più piccoli di 0.5 cm. I dati analizzati portano ad una media di 98 pezzetti di microplastiche contenuti all’interno di ogni chilo di animale marino delle zone costiere. Si parla di granchi, crostacei, chiocciole, cozze, vongole e pesci di varie dimensioni. La plastica solo in parte viene espulsa e la restante rimane nel loro stomaco, togliendo spazio al cibo vero, con conseguente carenza di energia, fino al deperimento. Sulle coste – prosegue Cannicci – il dato è ancora peggiore: in media 156 pezzettini di microplastiche ogni chilo di sedimento”.
L’inquinamento, oltre che alle zone geografiche e climatiche, è legato alle stagioni, alla densità della popolazione e al tipo di gestione dei rifiuti. “Dallo studio – sintetizza il ricercatore dell’Ateneo fiorentino – le aree che appaiono più inquinate sono il Mediterraneo, Sud-Est Asiatico, le coste della Cina. Ma mancano studi sul Nord America: appena 5 pubblicazioni sulle 112 analizzate. In genere la plastica è più abbondante nelle foreste di mangrovie e nelle paludi”.
Dalle ricerche passate in rassegna emerge che una parte delle plastiche è entrata nel ciclo del carbonio – spiega ancora Cannicci -, cioè che esiste una flora batterica capace alla lunga di decomporla. È un elemento di speranza e uno spunto per approfondire le ricerche, ma occorre ricordare che i tempi necessari per questa azione naturale sono molto lunghi. Sull’immediato è necessario prendere coscienza che l’inquinamento delle coste, che proviene in gran parte dai fiumi, non è solo quello delle macroplastiche che coprono gli ecosistemi fino a soffocarli, ma anche quello delle microplastiche, un nemico più subdolo, ma non meno insidioso”.
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Stefano Cannicci presenta la ricerca internazionale relativa all’impatto della plastica sulle coste e sugli animali marini