Nanotecnologie per l’archeologia e l’antropologia

Da una collaborazione interdisciplinare una ricerca su nuovi materiali per consolidamento di reperti ossei
Archivio fotografico 123rf.com - Riproduzione riservata
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Una nuova generazione di nanomateriali per il consolidamento di reperti ossei d’interesse archeologico e, potenzialmente, per quelli di interesse paleontologico. E’ questo il risultato di una collaborazione interdisciplinare fra il Dipartimento di Chimica “Ugo Schiff”, quello di Biologia dell’Università di Firenze, il Consorzio Interuniversitario CSGI e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, sezione di Firenze, di cui riferisce l’articolo pubblicato su Scientific Reports.

Il gruppo dei ricercatori del Dipartimento di Chimica, coordinato da Emiliano Carretti, è riuscito a mettere a punto una nuova procedura di sintesi per conseguire idrossiapatite – la componente inorganica delle ossa umane – nanostrutturata in grado di ricostituire le proprietà meccaniche e la coesione di reperti ossei in stato di deterioramento più o meno avanzato. “Grazie a questo nuovo materiale, in combinazione con nano-cristalli a base di idrossido di calcio – spiega Emiliano Carretti -, si riesce a consolidare con eccellenti prestazioni i reperti, garantendo loro significative proprietà in termini di micro-durezza e compattezza su scala micrometrica, così come documentato da misure di micro-tomografia a raggi x”.

La peculiarità di questo nuovo protocollo conservativo è anche quella di operare in condizioni di massima compatibilità col supporto da consolidare, senza introdurre componenti chimiche di natura organica, che potrebbero successivamente influenzare in maniera significativa le misure di radio-datazione al carbonio-14 e avere un impatto negativo su altre analisi basate su tecniche biomolecolari.

Il gruppo del Dipartimento di Biologia, coordinato da Martina Lari e di cui fanno parte anche David Caramelli, Alessandra Modi e Stefania Vai, ha testato l’impatto del trattamento sulla qualità dei dati genetici ottenuti da resti ossei umani archeologici. “Utilizzando metodiche paleogenetiche di nuova generazione abbiamo ottenuto dati genetici comparabili nei campioni trattati con la nuova metodologia consolidante e nei controlli non trattati – sottolinea Martina Lari – . Se si escludono le ossa altamente degradate, l’applicazione delle nanoparticelle di idrossiapatite e di idrossido di calcio risulta pertanto perfettamente compatibile con questo tipo di analisi biomolecolari”.

Mariaelena Fedi

Analogamente le ricerche dei fisici, coordinati da Mariaelena Fedi (nella foto) dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, sezione di Firenze, hanno evidenziato come la radio-datazione mediante misura della concentrazione residua di carbonio-14 non sia minimamente influenzata dal preventivo trattamento. “Abbiamo verificato che per le ossa trattate secondo la nuova metodologia è possibile applicare la procedura di estrazione e pulizia del collagene che, tipicamente, è utilizzata per campioni non restaurati e per i quali ci possiamo aspettare semplicemente possibili contaminazioni di tipo naturale. In questo modo è possibile, quindi, datare campioni ossei consolidati senza dover applicare complicate e pesanti procedure per la rimozione dei prodotti applicati, procedure che potrebbero anche degradare il materiale di interesse per la misura vera e propria”.

Il lavoro apre stimolanti e promettenti orizzonti per il consolidamento preventivo di reperti ossei d’interesse storico, archeo-antropologico e paleontologico, senza che questo provochi effetti alteranti sulle successive indagini di tipo molecolare e fisico, come invece accade coi tradizionali consolidanti a base di materiale organico di sintesi o naturale.

“Il nostro studio, che è nato all’interno dell’équipe di ricerca sulle nanoscienze e nanotecnologie per la conservazione dei beni culturali – aggiunge Luigi Dei, coautore del lavoro –, mette anche in evidenza il valore inestimabile della interdisciplinarietà nell’affrontare le complessità della ricerca di frontiera. Mi fa piacere sottolineare che la collaborazione con ricercatrici e ricercatori di varie aree ha di fatto messo insieme ben tre generazioni”.

 


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