Shoà e letteratura

Prende spunto da un verso di Montale il convegno in programma martedì 28 gennaio alla Biblioteca Umanistica, organizzato dall'Ateneo per il Giorno della Memoria 2020. La curatrice Ida Zatelli, docente di Lingua e letteratura ebraica, descrive il senso dell'iniziativa.
Archivio fotografico 123rf.com - Riproduzione riservata
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La letteratura e l’arte rappresentano la vera voce dell’umanità capace di raggiungere tutti, una voce destinata a durare molto a lungo, che apre la mente e il cuore a una comprensione più profonda e acuta. Per questo è così importante la testimonianza degli scrittori di altissimo rilievo che abbiamo scelto per raccontare la Shoà in questa giornata, che non vuole essere un vuoto rituale, ma l’acquisizione di una consapevolezza più autentica attraverso la stessa partecipazione emotiva.

“Distilla veleno una fede feroce” è un verso della poesia Dora Markus di Eugenio Montale raccolta in Le occasioni (1939). La lirica ha avuto una lunga gestazione: una prima parte fu scritta nel 1928, la seconda, che comprende il nostro verso, è di un decennio posteriore e risente della inquietante impressione che sul poeta esercitò la visita di Hitler a Firenze e l’incontro fra il Duce e il Führer (1937, un anno prima delle leggi razziali). Nella figura femminile immortalata in questa lirica si sommano i ritratti di due donne ebree vicine al poeta: Dora Markus, una ragazza ebrea moldava e Gerti Frankl, amica di Bobi Bazlen, conosciuta a Trieste. Il rapporto di Montale con l’ebraismo risale ai primi anni Venti e alla prima scoperta dell’opera di Italo Svevo. Eugenio Montale nel 1926 scriveva a Giacomo Debenedetti: «Se fosse possibile essere ebrei senza saperlo, questo dovrebbe essere il mio caso». A quel tempo, molti consideravano Montale ebreo, per via del sostegno letterario offerto a Italo Svevo, ma l’ebraismo interiore cui Montale si riferiva non aveva nulla a che vedere con l’appartenenza religiosa o etnica. Piuttosto si trattava di una condizione di «trasportabilità» del proprio universo affettivo: «Tanta è la mia possibilità di sofferenza – continuava infatti il poeta – e il mio senso dell’arca… fatta di pochi affetti e ricordi, che potrebbe seguirmi ovunque, inoffuscata».

Primo Levi — raccontato da Alberto Cavaglion — definisce «fievoli e un po’ profani» i mezzi necessari ad affrontare «temi disperati»: ad esempio il viaggio di un atomo attraverso i secoli o «il tenue legame che vincola l’anima al corpo». Fievole — «e un po’ profana» — è anche la voce di Levi quando si confronta con i classici della letteratura e anche con la Scrittura biblica. Tre i luoghi dove questo timbro vocale risuona solenne: l’inizio e la fine del Canto di Ulisse e, nella sua interezza, il racconto Carbonio. Gli interpreti hanno messo in evidenza la difficoltà a «rivestire con parole» gli orrori del Lager, ma si sono ritratti davanti all’idea che Levi si occupi di quel «labirintico intreccio di sì e di no» che è rappresentato dal coro di voci di classici cui si ispira: Dante, Manzoni fra le letture scolastiche, ma anche Thomas Mann e Baudelaire fra le letture degli anni universitari. Tutti i personaggi di Levi hanno un modello reale e uno letterario. Cesare, uno dei protagonisti de La tregua, si chiamava Lello Perugia, ma in Se questo è un uomo ci era già stato presentato come Piero Sonnino. Nessun altro personaggio ha avuto un’identità anagrafica così incerta. Questo forse è dovuto al peso maggiore dell’eredità letteraria. Il personaggio di Cesare è modellato sui sonetti romaneschi di Giuseppe Gioacchino Belli, che Levi continuerà ad amare fino agli ultimi anni, quando ne inserirà quattro nell’antologia La ricerca delle radici. Spaventa, forse perché appare incoerente, l’idea che l’illuminista chimico, scrutatore della Materia si sia avventurato lungo i sentieri del Bello e anche del Sacro.

Irène Némirovsky (1903–1942) — presentata da Valeria Dei —, ebrea russa emigrata in Francia e morta ad Auschwitz, ha tematizzato nella sua opera la condizione di apolide e di esclusa, da lei vissuta in prima persona. Le trame némirovskyane, infatti, ruotano molto spesso attorno a personaggi, generalmente ebrei, che hanno abbandonato il loro mondo di origine e hanno tentato di integrarsi nella società borghese, senza mai davvero riuscirci, restando così perennemente in bilico tra assimilazione e non assimilazione, tra appartenenza e non appartenenza.

Attraverso l’analisi di alcuni dei romanzi in questo senso più significativi, mostreremo quindi come nell’opera di Irène Némirovsky il desiderio di inserirsi nel mondo borghese si accompagni all’amara consapevolezza dell’impossibilità di essere accettati in quanto diversi. L’integrazione si può compiere solo rifiutando e rinunciando alle proprie origini, ma queste, impossibili da cancellare, ne pregiudicano una piena realizzazione.

Aharon Appelfeld (1932–2018), originario della Bucovina, sopravvissuto alla Shoà, è infine presentato da Alberto Legnaioli. All’indomani della catastrofe Israele si trova a dover accogliere concretamente e spiritualmente i brandelli straziati di un popolo condotto sull’orlo dell’annientamento. Tuttavia, i sopravvissuti alla Shoà recano con sé un’identità ormai lacerata che mal si concilia, o, per meglio dire, si contrappone nettamente all’identità del sabra, positiva ed energicamente proiettata in avanti, al servizio del progetto sionista – il «costruire e costruirsi» dello stato e del «nuovo ebreo» ad un tempo. La società israeliana fatica a riconoscere come parte di sé quel popolo ebraico proveniente dalla diaspora e sopravvissuto al massacro. Occorre attendere il processo ad Eichmann, perché la società israeliana riscopra i sopravvissuti, che ormai da oltre un decennio vivono in mezzo a loro. È sulla scia di tale incontro che Appelfeld avverte la necessità di tradurre la propria esperienza personale sul piano letterario, pubblicando la sua prima opera, Fumo (‘ashan, 1962). In questa raccolta, così come in altre sue opere successive, Appelfeld dà voce ai sopravvissuti, una scelta che suo malgrado lo consacrerà agli occhi del pubblico come lo scrittore della Shoà. D’altronde, per sua stessa ammissione gli anni che più segnarono l’esistenza dell’autore e la sua opera furono proprio quelli della giovinezza, che lo videro prigioniero in un campo di concentramento, da cui solo riuscì a fuggire, nascondendosi a lungo nei boschi, per poi trovar rifugio presso una famiglia cristiana. Tale esperienza produrrà un’eco costante nell’opera di Appelfeld.

L’incontro è concluso dalla testimonianza viva e toccante di Daniel Vogelmann, della Casa Editrice Giuntina di Firenze, che rievoca le vicende stesse della sua famiglia.

Il convegno «Distilla veleno una fede feroce” (E. Montale). Shoà e letteratura» si terrà martedì 28 gennaio (ore 15.30, Biblioteca Umanistica-Sala Comparetti, Piazza Brunelleschi, 3-4). L’iniziativa è realizzata, insieme alla Biblioteca, dal Dipartimento di Formazione, Lingue, Intercultura, Letterature e Psicologia, in collaborazione con la Fondazione il Fiore e con il patrocinio della Comunità Ebraica di Firenze.


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