Covid-19, perché manca il farmaco strategico

Alla base della mancanza di farmaci per arginare il Coronavirus sta una clamorosa mancanza di visione e di lungimiranza da parte degli Stati e delle grandi case farmaceutiche. E' quanto ha messo in evidenza Claudiu Supuran, docente di Chimica farmaceutica, in un editoriale-denuncia rivolto alla comunità scientifica, pubblicato su "Expert Opinion on Therapeutic Patents".
Archivio fotografico 123rf.com - Riproduzione riservata
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“Il mondo era stato avvertito. L’epidemia di SARS del 2002-2003 partita dalla Cina e quella di MERS sviluppatasi nel 2012 in Arabia Saudita avevano parlato chiaro sul fatto che estese regioni della Terra avrebbero potuto essere sotto scacco, anche in futuro, a causa di virus letali. La similitudine fra le due precedenti e acute sindromi respiratorie, alla cui famiglia appartiene anche l’attuale SARS-CoV-2 (detto anche Covid-19), poteva favorire lo sviluppo anche industriale di linee di ricerca farmacologica importanti e peraltro già avviate dagli studiosi. Invece non si è fatto niente e si sono persi anni preziosi. Un danno incalcolabile: ad oggi, nel mondo – che per metà è praticamente bloccato – contiamo 3 milioni di contagiati e 200mila morti. E non è finita”.

E’ una denuncia precisa quella lanciata da Claudiu Trandafir Supuran, docente di Chimica farmaceutica di rilievo internazionale, che firma – insieme ad altri studiosi italiani e stranieri, fra cui Fabrizio Carta, altro ricercatore dell’Ateneo  – un accorato editoriale sulla rivista Expert Opinion on Therapeutic Patents (“A deadly spillover: SARS-CoV-2 outbreak” https://doi.org/10.1080/13543776.2020.1760838). Ci spieghi più nel dettaglio, professore.

“Le conoscenze dei ricercatori relative alle macchine biochimiche di questi virus sono da anni piuttosto dettagliate. Sappiamo molto sulla genetica, sulla biologia molecolare e sui cicli di vita di questi agenti patogeni. Le ricerche hanno, ad esempio, individuato fra gli obiettivi da colpire il meccanismo delle proteasi, che permette ai virus di moltiplicarsi. Negli anni sono anche stati elaborati principi farmacologici inibitori della proteasi, che ora sono utilizzati, ad esempio, nella cura dell’epatite C e dell’HIV: sono farmaci che bloccano la macchina del virus e hanno bassa tossicità; io stesso attualmente sto lavorando a un progetto internazionale per lo sviluppo di una terapia inibitoria della proteasi, in riferimento al Covid-19.  Ma l’efficacia dei farmaci dipende in gran parte dalla progettazione specifica per una tipologia di virus”.

Per questo i rimedi che si stanno sperimentando per curare l’epidemia non sono risolutivi?

“Sì, infatti i farmaci attualmente usati contro il Covid-19 sono stati progettati e realizzati per altre patologie: per questo sono meno efficaci. Sul versante dei candidati farmaci specifici per l’attuale virus siamo indietro, seppure le strade percorribili fossero già state tracciate dai ricercatori”.

Cosa è mancato?

“Per sviluppare un nuovo farmaco non bastano i ricercatori, che hanno risorse limitate. L’investimento richiesto è ingente: si calcola che in media sia necessario un miliardo di dollari. Il processo –  tra fase preclinica, valutazione della tossicità, verifica dell’efficacia e degli effetti collaterali, confronto con le medicine attualmente a disposizione, sperimentazioni, fino alla definitiva approvazione e commercializzazione  – può durare 10, anche 15 anni. In particolari casi, come per i farmaci anti HIV, i tempi si contraggono: 5 o 6 anni. Nel caso dei virus CoV  i ricercatori hanno continuato ad indagare in questi anni, ma con finanziamenti molto limitati. Ma le grandi aziende farmaceutiche hanno reputato di non investire massicciamente sulla scoperta di farmaci per malattie che colpivano numeri limitati di persone: sia nel caso della SARS che della MERS le vittime globali sono state dell’ordine di un migliaio. Quello che abbiamo sotto gli occhi dimostra quanto si sbagliassero”.

Come è stato possibile?

“Una mancanza di visione oltre il breve termine e l’interesse immediato, ma anche una miopia nella lettura della realtà e nella sua interpretazione. A tal proposito ricordo che si erano levate voci significative. In questi giorni i media hanno ricordato un intervento di Bill Gates del 2015 in cui sosteneva quanto nel futuro sarebbe stata più pericolosa un’epidemia rispetto a una guerra. Ma già nel 2012 David Quammen, scrittore e divulgatore scientifico statunitense, ha scritto un testo sull’evoluzione delle epidemie, in cui prediceva – con dettagli sorprendenti – l’avvento di una futura pandemia causata da un virus trasmesso da un animale selvatico all’uomo”.

Che giudizio possiamo trarre da tutto questo?

“Che esiste anche una responsabilità degli stati e dei governi: lo sviluppo di farmaci strategici per le epidemie non può essere lasciato solo nelle mani delle aziende farmaceutiche. I grandi Paesi e le istituzioni internazionali come l’Organizzazione Mondiale della Sanità dovrebbero finanziare direttamente programmi per lo sviluppo di terapie nell’interesse della salute pubblica o stringere a tal fine alleanze con il settore privato. Dobbiamo ripartire da questa presa di coscienza”.


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