Doveva essere magnifica, con le sue nove cupole tempestate di lapislazzuli, ma un terremoto la fece crollare dopo pochi decenni dalla sua costruzione. Di Noh Gonbad, la moschea eretta nell’VIII secolo (circa un secolo e mezzo dall’Egira) vicino a Balkh, nel nord dell’Afghanistan, rimangono il perimetro delle mura e delle colonne esterne e due giganteschi archi che sostenevano le cupole centrali. Per la loro conservazione è al lavoro dal 2007 un’equipe internazionale che conta sulla collaborazione di Ugo Tonietti, docente del Dipartimento di Architettura, che si è occupato del consolidamento e del restauro del monumento.
“Noh Gonbad è un esempio eccezionale di architettura religiosa – racconta Tonietti, associato di Scienze delle costruzioni -. Quella che un tempo era una moschea, è situata in una regione che in un antico passato costituiva uno dei centri nevralgici dei traffici commerciali tra Europa e Oriente. Anche in rovina, il monumento è rimasto per secoli caro ai musulmani ma sconosciuto alla comunità scientifica. Fino a quando una studiosa canadese, Lisa Golombek, l’ha riscoperto nel corso di una missione archeologica di studio nel 1969.”
Il monumento è una struttura composta da diversi materiali (terra cruda pressata, mattoni crudi e mattoni cotti) interamente ricoperta, nelle superfici interne, da uno strato di gesso finemente intagliato che ha subito i danni del tempo ma non gli attacchi iconoclasti dei Taliban. Di gran parte delle eccezionali volte colorate in pasta di lapislazzulo, di cui l’Afghanistan è ricco, si sono perse le tracce (ora nascoste tra i detriti che si sono accumulati durante il crollo) ma sono rimaste numerose decorazioni su pareti e arconi, testimonianza dell’iconografia religiosa dell’area.
“Del sito si è occupata dagli anni ‘70 la Delegazione Archeologica Francese (DAFA) che nel 2007 mi ha coinvolto, grazie all’interessamento dell’Associazione italiana Giovanni Secco Suardo (altro partner essenziale del Progetto) e per il credito internazionale di cui gode l’università italiana in queste discipline, guidandomi nella prima delle molte missioni che ho svolto, con meno rischi di quanto si potrebbe pensare, in Afghanistan negli ultimi 10 anni – racconta il ricercatore -. Nella fase di studio degli aspetti statici e conservativi, abbiamo anche operato test fisici e meccanici sui materiali e sulle strutture, parte nei laboratori del Dipartimento di Architettura, parte presso l’ICVBC-CNR di Firenze. Nel 2010 il team internazionale è passato alla fase d’intervento, che ha coinvolto l’Aga Khan Trust for Culture, sotto la cui responsabilità, e grazie al suo fondamentale radicamento territoriale, il cantiere è stato aperto. Fondamentale il ruolo di donatore svolto dall’Ambasciata USA a Kabul.
Il restauro, che ha permesso in questa prima fase di consolidare gli arconi a rischio di crollo, proseguirà nei prossimi anni sui muri perimetrali. “Obiettivo dei futuri interventi – spiega ancora Tonietti -, è quello di eliminare lo spesso strato di detriti che nei secoli ha custodito il sito, catalogare le decorazioni interrate e far rivivere il monumento nella spazialità dell’architettura originale”.
Agli studi e al lavoro svolto fino a oggi è stato dedicato il volume “The Nine Domes of the Universe”, a cura del Ministero dell’Informazione e della Cultura afgano, dell’AKTC, della DAFA, del Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, del World Monuments Fund e dell’Associazione Giovanni Secco Suardo. L’opera – presentata lo scorso 18 ottobre a Roma al Ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo – offre anche un ricchissimo corredo di foto altamente evocative scattate da Josephine Powel e dagli studiosi nel corso degli ultimi decenni, assieme alle interpretazioni e ricostruzioni archeologiche ed ai contributi dedicati agli interventi realizzati.