I trasporti e le comunicazioni stanno erodendo il concetto di lontananza. La facilità di viaggiare ci permette di avere tra noi studenti che vengono dai paesi più lontani e di visitare luoghi che pochi anni fa vedevamo solo nei film di James Bond; il rapido movimento delle informazioni ci fa sorridere nel ricordare quando dovevamo consultare i voluminosi cataloghi delle biblioteche per preparare la tesi oppure ricorrere alla posta aerea per inviare un articolo a una rivista internazionale per poi aspettare la ricevuta di ritorno. Anche la lingua che usiamo per comunicare, l’inglese, ormai non è più una lingua “straniera” perché Internet e la musica che scarichiamo sui telefonini stanno risolvendo il limite italiano creato dal nostro cinema abituato a tradurre i film dalla lingua originale. Addirittura i social media ci permettono una partecipazione attiva e critica alle informazioni che riceviamo (i LIKE) e talvolta le false notizie vengono smascherate.
Le informazioni che riceviamo possono portarci a schierarci su posizioni che riteniamo giuste in base a quello che ci è stato comunicato. Ma ci è stato comunicato tutto? Quali elementi mancano e quali interessi ci sono dietro? A volte avrete approfondito la conoscenza per poi scoprire, superata la prima impressione, che i fatti si erano svolti in modo diverso e solo allora il giudizio iniziale ha vacillato. Sviluppare una capacità critica richiede l’acquisizione di un metodo e un continuo aggiornamento delle conoscenze. Questo talvolta è difficile, la realtà nella quale si è svolto quell’evento è diversa dalla nostra, segue regole culturali che per noi sono lontane ed è difficile applicarvi le nostre. Scoprirete anche che il vostro ruolo di studenti, come persone attente e interessate ad approfondire la conoscenza dei problemi, sarà ritenuto scomodo. In questi casi ricordatevi che il ruolo dell’Università e degli studenti è stato sempre scomodo e talvolta anche pericoloso. Giulio Regeni era uno di noi.
E’ proprio per questo che dobbiamo porci delle domande.
Quante rappresentazioni fuorvianti continuano a creare divisioni? Dove e in chi deve nascere l’impegno per rendere il mondo più unito? Oggi uno dei temi più critici è l’immigrazione, spesso vissuta come una sfida, se non una minaccia, al benessere della popolazione, soprattutto tra le fasce sociali più deboli, anche per effetto dei processi di ridimensionamento delle tutele dei lavoratori conseguenti alla globalizzazione dell’economia.
I mezzi di comunicazione danno voce a queste paure, focalizzando l’attenzione su quelli che appaiono i più “diversi”, quelli che raggiungono le nostre coste in fuga dal loro paese. La grande maggioranza degli immigrati residenti in Europa è però costituita da persone che hanno una storia diversa, che sono qui per studiare o lavorare e che sono residenti in Italia da molti anni.
Anche se loro “non fanno notizia” quante volte si sono sentiti le prime vittime di questi stereotipi della comunicazione? Quante volte chi porta il velo per la propria fede islamica ha provato disagio entrando in un negozio o rivolgendosi ad un ufficio? La relazione della Commissione sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, istituita nel maggio 2016 e intitolata nel luglio successivo alla deputata Jo Cox uccisa il 16 giugno 2016, ha identificato negli stereotipi e nelle rappresentazioni false o fuorvianti la base della piramide dell’odio dove ai livelli superiori, ci sono le discriminazioni e quindi il linguaggio e i crimini di odio. Mai come adesso il vostro ruolo di studenti deve portarvi a guardare attentamente la realtà che vi circonda e aiutare gli altri a farlo.
Fu un giovane come voi che nel 1903 fece conoscere al mondo benestante cosa voleva dire essere nati dalla parte “sbagliata” della società britannica. Fu Jack London, più noto come l’autore di “Zanna Bianca”, a presentare con il suo “The People of the Abyss” una delle prime indagini sulle condizioni socio economiche dell’East End di Londra. Oggi quell’area è un quartiere residenziale ma le ricadute in termini di salute del fattore sociale e delle diseguaglianze nel mondo sono ancora rilevanti.
Nei paesi dove l’assistenza sanitaria è universale come l’Italia si finisce per non considerare che i fattori socio culturali possono ostacolare l’accesso ai servizi sanitari o di prevenzione da parte di una minoranza etnica. Il termine “salute globale” pone oggi attenzione all’analisi delle influenze dei fattori socio-economici sullo stato di salute e nasce nel 1975 con Samuel Preston, che mise in evidenza l’esistenza di una relazione tra aspettativa di vita e reddito pro-capite nei diversi paesi del mondo.
Nei paesi più poveri i genitori vivono ancora con la prospettiva di vedere morire i loro figli per polmonite, per diarrea o per malattie che possono essere prevenute dai vaccini. Per quei Paesi un piccolo aumento del reddito medio si traduce in grandi miglioramenti dell’aspettativa di vita, legati soprattutto alla riduzione della mortalità infantile. L’accesso all’acqua potabile e le malattie infettive sono un limite alla crescita di quei Paesi. I tre quarti di miliardo di persone che vivono con meno di un dollaro (internazionale) per persona al giorno, un livello quasi inimmaginabilmente basso, pongono una questione per noi eticamente inquietante.
Per molti, l’ovvio modo per rispettare l’impegno morale è attraverso gli aiuti dai paesi ricchi ai paesi poveri. In realtà l’osservazione che questi aiuti stanno danneggiando le persone di quei paesi i cui governi sono ampiamente finanziati da aiuti stranieri apre un capitolo molto controverso, come quello del debito pubblico di molti paesi dell’Africa, tema che affronteranno direttamente quelli tra voi che hanno scelto di approfondire gli studi delle materie economiche. I Paesi che hanno un reddito medio appena più alto hanno una migliore attesa di vita e cominciano a entrare nella fase delle malattie croniche, delle malattie cardiache e del cancro. Infatti in questi Paesi che hanno appena raggiunto un relativo benessere mancano le politiche di prevenzione e sono i soggetti giovani-adulti che cominciano a presentare obesità, aumento della pressione arteriosa, diabete. In questa fase la mortalità infantile è bassa, ma le malattie come l’infarto o l’ictus iniziano a colpire soggetti in età giovanile. Infine nei paesi ad alto reddito, dove la cultura della prevenzione è diffusa da molti anni, le malattie cardiovascolari si riducono o interessano solo i più anziani. Questi cambiamenti prendono il nome di transizione epidemiologica, e a ciascuna di queste fasi corrispondono i vari volti della medicina che conosceranno quelli che tra voi si occuperanno di materie sanitarie.
Oggi l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che la maggior parte della popolazione mondiale sia nella fase intermedia dello sviluppo e che oltre il 75% delle morti per infarto o ictus siano a carico dei paesi a basso-medio reddito.
Proprio per questo dovremmo considerare quale sia il potenziale beneficio di estendere la prevenzione delle malattie cardiovascolari ai paesi a reddito medio, dove è cresciuto il benessere e le malattie infettive non sono più la prima causa di morte. E’ una fase che in Italia abbiamo sperimentato ai tempi della crescita economica del dopoguerra (forse ricordate il detto “grasso è bello”) e che forse oggi, concentrati sulle diete dimagranti e sul fitness, abbiamo dimenticato. E in quei paesi dobbiamo lavorare e agire per estendere la lotta per la riduzione del consumo di sale, di tabacco, o contro l’obesità, l’ipertensione, le dislipidemie e il diabete. Nella ricerca di un ruolo solo apparentemente più attivo, concentriamo spesso la nostra attenzione sulle catastrofi legate alle guerre, supportati dal clamore dei media. Ma costruire un ospedale in una zona sotto assedio o schierarsi dalla parte di uno dei due fronti in guerra vuol dire divenire un bersaglio. Gli attacchi agli ospedali in queste realtà sono cronaca degli ultimi anni.
Questi cambiamenti globali hanno oggi una grande importanza anche per i nostri paesi europei. Nel 1990 poco più del 2% della popolazione in Italia era nata al di fuori dell’Europa e un medico aveva poche occasioni di incontrare una persona appartenente a una minoranza etnica nel reparto ospedaliero o nel suo ambulatorio. Negli ultimi decenni questo scenario è cambiato drasticamente. Al 1° gennaio 2016 le persone residenti in Europa e nate al di fuori dell’ Europa erano 35,1 milioni. Tra il 2000 e il 2009 l’aumento più consistente dei residenti nati all’estero si è riscontrato in Spagna (da 820.000 a 5.663.000) e in Italia (da 1.270.000 a 4.235.000).
Oggi il tasso di immigrati sul numero totale di residenti supera il 10% in regioni come la Toscana, la Lombardia e l’Emilia Romagna. Nonostante questi cambiamenti rilevanti, la formazione scientifica e culturale sui bisogni delle minoranze etniche è ancora limitata.
All’inizio degli anni ’90 la prima Commissione del Ministero della Sanità sulla salute degli immigrati, istituita per definire strategie di sanità pubblica adeguate, era composta da tropicalisti, infettivologi, un medico del turismo e da un veterinario, perché si pensava che la grande maggioranza delle malattie che colpivano gli immigrati dovessero essere di natura infettiva o tropicale. Negli anni è apparso evidente che le condizioni socioeconomiche e culturali sono determinanti di salute più importanti. In molti paesi europei, la prevalenza di ipertensione, diabete, malattia renale cronica, obesità e sindrome metabolica sono risultati più elevati nella maggior parte dei gruppi etnici rispetto alla popolazione nativa. I soggetti provenienti dall’Africa sub-sahariana e dall’Asia meridionale si trovano ad avere un rischio maggiore di ictus e di insufficienza renale rispetto agli europei nativi. Anche in Italia il rischio di malattia coronarica (infarto) dei soggetti provenienti dal Sud Est Asiatico è attualmente 2 volte superiore rispetto ai soggetti nati in Italia. Pur in presenza di un sistema sanitario di tipo universalistico, come quello italiano, le difficoltà culturali e linguistiche possono infatti costituire barriere all’accesso ai servizi. Chi studierà le scienze sociali si renderà conto che le diverse comunità straniere che caratterizzano l’immigrazione in Italia, possono manifestare differenze nell’attitudine a rapportarsi con il sistema sanitario.
I dati relativi ai bisogni di salute della popolazione cinese residente in Europa erano molto limitati. Eppure in Cina il rapido sviluppo economico degli ultimi decenni è stato accompagnato da un progressivo aumento della prevalenza dei più importanti fattori di rischio cardiovascolari, come ipertensione e diabete (che è salito dall’1% nel 1980 al 11% nel 2013), sia nelle aree rurali sia in quelle urbane. La comunità cinese è la terza tra le comunità di immigrati che vivono in Italia. Prato, con una popolazione di 185.456 al Censimento 2011, è la città italiana con la più alta percentuale di cinesi rispetto alla popolazione residente e attualmente il 32% dei bambini che nascono presso l’ospedale di Prato ha madre cinese. La mancata conoscenza della lingua e i timori nell’avvicinarsi a strutture con le quali si ha poca familiarità possono condizionare l’accesso alle strutture sanitarie di questa popolazione. Nel 2014 grazie alla collaborazione delle Autorità Cinesi (Consolato Generale di Firenze) e delle principali associazioni cinesi della zona, il nostro Ateneo ha costruito un progetto condiviso finalizzato a identificare e dare priorità ai bisogni della comunità cinese. In questo nuovo modello di approccio condiviso è stato creato un punto di screening ospitato dalla Comunità cinese (prima esperienza in Europa), invece che da un centro del nostro Sistema Sanitario Nazionale. Questo approccio non solo ha portato a conoscere la diffusione dell’ipertensione, del diabete, dell’ipercolesterolemia, e della ipertrigliceridemia tra la popolazione cinese e a capire che queste differenze non erano influenzate dal tempo di permanenza in Italia, ma soprattutto ha creato un clima di fiducia nella popolazione. Si tratta ora di rendere strutturale questo modello di partecipazione e di iniziare ad estenderlo alle altre etnie presenti. Questa sarà una delle sfide dei prossimi anni. Questo risultato è stato possibile a Firenze, una città che ha nelle sue tradizioni una vocazione all’accoglienza fraterna, una spiccata sensibilità per l’aiuto ai deboli nel rispetto delle diverse culture.
Potete fare molto già da studenti perché quel “domani” divenga al più presto un “oggi”. Un incontro come questo ha un grande valore non solo per voi che iniziate a prepararvi un futuro nelle le discipline più diverse. E’ importante anche per chi vi sta vicino, per chi ha scelto di continuare a mantenere il contatto con la fascia più viva e più fertile della società coltivando quelle stesse discipline. Sono i vostri professori, che continuano a cercare di selezionare le parole davvero importanti dalla massa di informazioni disponibili per condividerle con voi, con il desiderio di costruire insieme un futuro migliore. Presto condividerete questo stesso spirito anche con altri ricercatori che vivono e lavorano in altri paesi. E’ questo senso di unione la vera dimensione dell’Università. E’ un ideale che vi darà forza anche quando arriveranno le prime difficoltà. Iniziate oggi a coltivare il rispetto per questi valori e preparatevi a difenderli sempre. Oggi è un giorno importante per tutti noi.
[Il testo riproduce l’intervento di Pietro Amedeo Modesti, svolto in occasione di Firenze cum laude, nel Salone dei 500 di Palazzo Vecchio, martedì 24 ottobre 2017]