“Più la società entra nel mondo del carcere e maggiore è il vantaggio per tutti, perché diventa possibile riaprire strade o possibilità che non si potevano neanche immaginare”.
Alessia Tripodo viene da Reggio Calabria ed ha conseguito a Firenze una laurea triennale in Filosofia. Nell’ambito del Servizio Civile per l’Università di Firenze, è stata tutor per gli studenti detenuti che partecipano dell’esperienza del Polo Universitario Penitenziario, che da più di 20 anni garantisce in Toscana il diritto allo studio universitario a chi si trova in esecuzione penale. Il Polo penitenziario è nato per iniziativa dell’Ateneo fiorentino nel 1999 e poi si è allargato con il contributo degli atenei di Pisa, Siena e Siena Stranieri. I tutor svolgono la loro attività alla Dogaia a Prato, a Sollicciano e al “Mario Gozzini” a Firenze e alla Residenza per esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) a Empoli.
Quali erano i tuoi compiti quando andavi in carcere?
Principalmente offrivo la possibilità di un supporto nella comprensione delle materie. In carcere, per motivi che si possono intuire, non è possibile svolgere delle lezioni in classe: diventa quindi fondamentale per le persone che si cimentano con questo impegno avere qualcuno che possa rispondere ai dubbi, ascoltare le loro esposizioni orali, consigliare una metodologia di studio adeguata. Ma i tutor sono anche essenziali per reperire i libri e il materiale didattico. Fanno inoltre da mediatori fra gli studenti e i professori per il piano di studio o altre necessità.
Che tipo di riscontro hai avuto?
È evidente che l’esperienza del Polo Universitario Penitenziario è una grande occasione per rimettersi in gioco, per provare a recuperare il proprio percorso di vita. Per la maggior parte si tratta di persone adulte, da 50 anni in su, alcune anche piuttosto autonome, tutte molto motivate.
Come ti sei trovata nell’ambiente del carcere?
All’inizio avevo dei pregiudizi, poi mi sono accorta che la realtà è diversa da come la si immagina. Il carcere è un microcosmo: se da una parte non si possono banalizzare i reati compiuti dalle persone che ci vivono, dall’altra non possiamo pensare a un istituto di pena come a un contenitore di malvagità assoluta. Ci sono tante storie, tanti tipi di fragilità, tanto male e tanto bene. Sono stata molto contenta di lavorare a Dogaia: c’è stata una collaborazione molto proficua, soprattutto con educatori e polizia penitenziaria. Per lo svolgimento di queste attività l’Ateneo ci ha formato sia dal punto di vista giuridico che relazionale.
Anche Ludovica Testa, campana, laureata in Giurisprudenza all’Ateneo fiorentino, ha fatto il tutor a Dogaia.
Come giudichi l’attività svolta a Dogaia?
È stata una bella esperienza, sinceramente non ho avuto difficoltà. Ho visto le persone ben disposte verso questo tipo di servizio e anche disponibili nei miei confronti. Non studiano per passatempo, l’impegno sui libri è la possibilità per loro di vedere se stessi in un altro modo. Che soddisfazione ho avuto quando ho saputo che avevano superato gli esami!
Il diritto allo studio come attività rieducativa: cosa ne pensi, da studiosa di diritto?
Credo molto nel fatto che le persone possano avere una seconda possibilità. Penso che questa esperienza, che rende reale il diritto allo studio anche in un contesto difficile e permette di studiare insieme ad altre persone esterne al carcere, sia funzionale allo scopo.