Agricoltura sostenibile nelle Ande precolombiane

Il primo studio genomico sui fagioli antichi, di cui ha fatto parte l’Ateneo, rivela che tra 600 e 2500 anni fa gli antichi agricoltori delle Ande selezionavano i legumi, preservando la variabilità genetica.
I quindici semi antichi di cui è stato sequenziato il genoma completo
I quindici semi antichi di cui è stato sequenziato il genoma completo

La sensibilità verso un’agricoltura sostenibile, riscoperta contemporanea, risale a molti secoli fa. Già nelle Ande precolombiane la coltivazione dei legumi era praticata in modo da conservare la variabilità genetica.
Lo rivela il primo studio genomico sui fagioli antichi, pubblicato su Nature Plants da un team di cui ha fatto parte l’Ateneo fiorentino (“Ancient genomes reveal early Andean Farmers selected common beans while preserving diversity” DOI: 10.1038/s41477-021-00848-7).
I ricercatori hanno sequenziato il genoma completo di 15 semi antichi di fagiolo (Phaseolus vulgaris) datati tra 600 e 2500 anni fa e provenienti da diversi siti archeologici in Argentina, molti dei quali situati sulle Ande ad alta quota. Il genoma dei semi antichi è stato poi confrontato con i genomi di cultivar moderne (le attuali varietà agrarie selezionate dall’uomo), per studiare i risultati in termini di selezione e variabilità genetica del processo di domesticazione, cioè dell’azione umana nel corso del tempo per rendere i legumi sempre più adatti alla produzione e al consumo.
“La ricerca – spiega Martina Lari, antropologa del Dipartimento fiorentino di Biologia e tra i principali investigator dello studio, a cui hanno partecipato anche David Caramelli e Stefania Vai – è stata coordinata da Giorgio Bertorelle dell’Università di Ferrara e ha visto coinvolte l’Università Politecnica delle Marche e l’Università di Oslo, oltre a diverse istituzioni museali argentine”.
Lo screening, effettuato complessivamente su una trentina di semi, ha mostrato che i legumi antichi sono un’ottima fonte di DNA antico. “Il gruppo fiorentino è stato protagonista del sequenziamento del DNA. Nella preservazione del materiale genetico dei semi – spiega Martina Lari – si sono rivelate fondamentali anche le peculiari condizioni ambientali dei siti archeologici, molti dei quali situati ad un’altitudine superiore ai 2000 metri, che hanno limitato la degradazione del DNA”.
Il confronto fra genomi antichi e moderni mostra che gli agricoltori andini del passato erano efficienti sia nella selezione dei tratti di interesse che nel mantenimento della diversità dell’intero genoma. “In pratica, – commenta ancora Lari – la variabilità che oggi è «spezzettata» nei genomi di diverse cultivar, 600 anni fa era ancora racchiusa in ogni singolo seme”.
La maggior parte dei tratti selezionati, identificati in diversi geni tra cui ad esempio quelli associati alla biosintesi degli zuccheri, alla risposta agli stress e alla dispersione dei semi, erano già presenti nei semi antichi. Al contrario, la perdita di variabilità genetica, una delle maggiori minacce dell’agricoltura moderna, è dovuta alle pratiche molto più recenti che hanno portato alle attuali cultivar di fagiolo. Lo studio fornisce informazioni interessanti per sviluppare anche oggi approcci in grado di preservare la diversità genomica.


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