Nella battaglia contro il Covid-19 lo strumento dello screening per identificare e isolare precocemente gli infetti riveste un’importanza strategica. L’allargamento del monitoraggio attraverso il test molecolare su ampie fasce della popolazione rappresenta una sfida dal punto di vista organizzativo e di costi, che potrebbe essere affrontata attraverso il metodo del pool testing.
La validità scientifica di questa procedura e le condizioni ottimali per la sua efficacia relativamente alla pandemia sono state analizzate da uno studio su Plos One a cura di un team di ricercatrici del Dipartimento di Statistica, Informatica, Applicazioni “Giuseppe Parenti” (DISIA) insieme all’Istituto per lo Studio, la Prevenzione e la Rete Oncologica (ISPRO)[“Pool testing on random and natural clusters of individuals: Optimisation of SARS-CoV-2 surveillance in the presence of low viral load samples” https://doi.org/10.1371/journal.pone.0251589].
“Con questa tecnica – spiegano Fabrizia Mealli e Michela Baccini, docenti UNIFI rispettivamente di Statistica e di Statistica medica e coordinatrici della ricerca insieme a Francesca Maria Carozzi dell’ISPRO – il materiale biologico prelevato con diversi tamponi individuali viene diluito, miscelato e poi analizzato in un unico test di laboratorio. Solo se il test di gruppo è positivo si procede all’analisi dei prelievi individuali, con un notevole risparmio in termini di numero di analisi da effettuare rispetto a uno screening classico che prevede un test per ogni soggetto”.
Il pool testing, secondo i risultati delle analisi di laboratorio condotte nei mesi di maggio-luglio 2020, è capace di rilevare anche le infezioni a bassa carica virale (le più difficili da individuare se diluite in un gruppo di campioni tutti negativi), a condizione che il gruppo analizzato non superi i cinque individui. La ricerca, che conferma le ipotesi di studio del gruppo avanzate già all’inizio del 2020, dimostra che così si può ridurre il numero di test fino al 70% e che i vantaggi diventano ancora più evidenti se si costruiscono i gruppi non in modo casuale ma così da includere soggetti naturalmente in contatto tra loro (membri della stessa famiglia, colleghi di lavoro, compagni di scuola).
“Operando sui cluster naturali – commentano Mealli e Baccini – aumenta infatti la probabilità che nello stesso gruppo possano coesistere più soggetti infetti: di conseguenza si mitiga l’effetto di diluizione che potrebbe invece mascherare la presenza di un’unica bassa carica virale e si riduce il numero dei test individuali da fare successivamente”.